Analisi delle contraddizioni e aporie a cui portano inevitabilmente i concetti tradizionali di Dio
Cosa intendiamo con DIO? Un essere infinito ed illimitato?
Allora un siffatto essere non può creare nulla, perché per farlo dovrebbe essere in qualche modo limitato da ciò che crea; come giustamente disse il filosofo G. Gentile “dio, per essere dio, renderebbe impossibile il mondo”, in quanto nella sua totalità ed infinità onnicomprensiva dovrebbe esistere soltanto lui, senza lasciare spazio ad altro. L’infinito è – in quanto tale – onni-inclusivo: non si può dare un “aldilà” o un “al di fuori” rispetto all’infinito, se non a costo di limitarlo e quindi finitizzarlo.
Non a caso, una parte della teologia ebraica tenta di risolvere questo problema tramite il concetto di “tsimtsum” che postula un “ritiro in se stesso”, ovvero una “auto-limitazione” da parte di Dio al momento della creazione.
Se Dio – in quanto infinito – includesse in sé anche l’Universo, verrebbe a mancare qualsiasi limite ontologico tra il creatore e la creatura; il mondo sarebbe semplicemente un sottoinsieme di Dio, una sua determinazione limitata (esattamente come la terra o qualsiasi altro pianeta o stella è nei confronti dell’Universo).
Dio non sarebbe – in altri termini – il principio creatore e provvidente di cui parlano le religioni, ma una semplice ed asettica estensione dell’Universo (che l’uomo, in linea di principio, potrebbe arrivare a conoscere grazie al progresso delle teorie scientifiche e al perfezionamento degli strumenti di osservazione).
Un Dio infinito, inoltre, essendo TUTTO e non mancando di NULLA non potrebbe desiderare nulla; non avrebbe senso attribuirgli una qualsivoglia forma di volontà.
Sarebbe, anche per questo motivo, indistinguibile dalla Natura (che non ha volontà e non persegue alcuno scopo).
Va osservato, da ultimo, che alcuni attributi che gli si assegnano non possono essere infiniti perché devono il loro senso proprio alla loro limitatezza (ad es. l’intelligenza, la personalità, la libertà, il senso morale).
Dio è una persona incorporea?
Un puro spirito senza corpo risulta al di là dell’umana immaginazione. Assolutamente incomprensibile è anche il fatto che un tale spirito possa avere creato la materia dal nulla, poiché l’esperienza mostra che solo le entità fisiche possono cambiare lo stato delle cose. L’esperienza ci mostra anche che gli esseri pensanti sono dotati di un corpo e che le loro facoltà intellettuali dipendono da determinate funzioni del corpo; se queste vengono meno, si perdono anche quelle. Un essere pensante senza cervello è tanto plausibile quanto un essere digerente senza stomaco e intestino o un essere respirante senza polmoni; non si vede dunque come possa pensare, provare emozioni, prendere decisioni, ascoltare le nostre preghiere, etc.
Un puro spirito incorporeo – in quanto privo degli organi di senso – non può neppure avere una conoscenza sensibile del mondo (l’unica concepibile al riguardo); non c’è alcuna differenza – sotto questo aspetto – tra un Dio incorporeo ed un handicappato sensoriale grave (con buona pace di coloro che lo ritengono pure onnisciente).
Un simile essere non sarebbe neppure in grado di compatire la nostra miseria, poiché gli mancherebbero quegli organi di senso che permettono di suscitare, dentro di noi, la compassione. La sua perfezione, inoltre, gli impedirebbe di abbassarsi al punto da partecipare delle nostre sofferenze (“com-patire”, “patire con”).
Oltretutto il compimento di ogni azione volontaria presuppone l’esistenza di un tempo che lo precede. Il tempo deve quindi aver preceduto la creazione della materia, ma il tempo e lo spazio non sono forse inseparabili dalla materia? E che dire di un Dio che aspetta un’eternità prima di decidersi – per motivi misteriosi – di creare?
Infine va osservato che ogni persona si definisce dalle sue relazioni con altre persone (uniche ed irripetibili nel loro genere). Come potrebbe un puro spirito infinito relazionarsi con altre soggettività esistendo lui solo? Come potrebbe – nella sua assolutezza ed onnicomprensività – non includere in se stesso tutte le altre personalità fino ad annullarle?
Dio è un essere infinitamente buono?
Ma la bontà, come tutti gli altri sentimenti morali, si definisce unicamente in base ai rapporti che esseri razionali finiti, come gli uomini, instaurano tra di loro. Se dio è infinito, non può avere alcun rapporto e, quindi, alcun legame morale col finito.
Una bontà infinita, inoltre, confligge inevitabilmente con l’esistenza del male nel mondo e con la stessa libertà di Dio (come potrebbe volere o compiere anche il male, se fosse infinitamente buono?) Un Dio infinitamente buono è dunque paradossalmente meno libero delle sue stesse creature umane, che perlomeno possono scegliere tra il bene ed il male proprio in virtù della loro limitatezza.
Dio è un essere onnipotente?
L’onnipotenza è un attributo necessario per poter creare qualcosa ex nihilo. Difatti, solo un potere infinito potrebbe eventualmente superare la distanza infinita che intercorre tra l’essere ed il nulla.
Ma l’onnipotenza – in quanto attributo infinito – non può inerire se non ad un essere infinito; e Dio, come già detto, non può essere infinito se coesiste con mondi da lui distinti.
Ecco dunque un bel dilemma per il credente: se Dio è infinitamente potente, allora è anche infinito, ma paradossalmente impossibilitato dalla sua stessa natura a creare qualcosa di esterno e di diverso da lui; se invece è finito, allora non può avere attributi infiniti (come l’onnipotenza), e dunque non può – neppure in questo caso – creare ex nihilo.
Inoltre, l’onnipotenza e la bontà insieme sono incompatibili con l’esistenza del dolore; e poiché nessuno può negarne l’evidenza (dato che TUTTI gli esseri senzienti si definiscono proprio in base alla loro capacità di provare dolore), tali attributi sono falsi.
Dio è un essere onnipresente?
Dovrebbe essere constatabile da tutti; basterebbe semplicemente aprire gli occhi e guardarsi attorno per percepirlo. Molto strano invece – per non dire assurdo – che l’onnipresente (ovvero ciò che per definizione è ovunque) non lo veda nessuno.
Sarebbe interesse di Dio rendersi visibile da TUTTI; otterrebbe omaggi sinceri e non fideistici e potrebbe interagire direttamente con le sue creature, così come un padre degno di questo nome interagisce con i propri figli. Purtroppo per i credenti (che non a caso “credono” in lui proprio perché non lo vedono e non lo sentono presente) non è così.
Un essere spirituale ed incorporeo, inoltre, sarebbe più appropriato definirlo onni-assente anziché onni-presente, in quanto non potrebbe occupare alcuno spazio, né risiedere in alcun luogo.
Infine, per citare il barone d’Holbach “se Dio è dappertutto, è anche in me, agisce con me, sbaglia con me, offende Dio con me, combatte con me l’esistenza di Dio” (Paul Thiry d’Holbach, Il buon senso).
Dio è un essere assolutamente immutabile?
Ma l’immutabilità non gli consentirebbe né di pensare, né di agire, rendendo così impossibile la “scelta” di creare il mondo. Il pensiero, in qualunque modo lo si voglia intendere, è un processo e ogni azione, in quanto tale, implica un “prima” ed un “dopo”.
Come argomentava Hume nei Dialoghi sulla religione naturale: “(..) una mente, i cui atti, sentimenti e idee non siano distinti e successivi, pienamente semplice e totalmente immutabile, è una mente che non ha pensiero, né ragione, né volontà, né sentimento, né amore, né odio”.
Un Dio immutabile, atemporale e quindi senza pensiero non potrebbe tra l’altro percepire la sua stessa esistenza! Inoltre, posto che esista un mondo al di fuori di lui (nel qual caso – come si è visto – non sarebbe neppure infinito) non potrebbe essere in alcun modo toccato dai suoi avvenimenti, per cui non avrebbe senso attribuirgli un carattere provvidenziale (Aristotele e Spinoza, che concepivano Dio come immutabile, per lo stesso motivo lo ritenevano a-provvidenziale).
Se invece per “immutabilità” si intendesse l’impossibilità per Dio di cambiare natura qualsiasi azione egli compia, avremmo l’assurdo di un Dio che permane buono pur ordinando stragi e massacri su ampia scala (in fondo il Dio biblico è proprio tale quale, ovvero crudele e tirannico nella prassi, ma sempre ed immutabilmente buono per natura).
Dio è un architetto intelligente, progettatore del cosmo?
Ma l’intelligenza, secondo questa impostazione, implica la necessità di un ulteriore progetto, essendo essa stessa “cosmos” (cosmos in greco = ordine). Non c’è intelligenza, infatti, senza una qualche forma di complessità e di ordine a livello di mente. Dovremmo allora retrocedere ad infinitum da un’intelligenza all’altra?
Inoltre l’universo, per come lo conosciamo, non reca affatto i caratteri di un’opera intelligente: basti pensare agli enormi sprechi di mutazioni genetiche che avvengono a livello di evoluzione biologica, ai buchi neri che cannibalizzano intere galassie, alle infinite imperfezioni della natura vivente, nonché al caos che domina in ambito quantistico; per dirla con Hume, alla generale mancanza di analogia tra la natura e le opere dell’uomo.
Infine, un essere intelligente potrebbe essere a) materiale o b) immateriale. Terzium non datur.
Nel caso a) sarebbe semplicemente un carattere emergente dell’universo (come la mente umana lo è del cervello) e dunque ad esso posteriore; e dovrebbe prima o poi venir meno, in virtù dell’inesorabile aumento dell’entropia a cui sarebbe legato (cfr. II Legge della Termodinamica). Nel caso b) sarebbe assolutamente inutile, in quanto – essendo completamente dis-omogeneo rispetto alla materia e mancando di qualsiasi punto di contatto con questa – non potrebbe in alcun modo interagire con l’universo per plasmarlo.
Senza contare che – come abbiamo visto – un’intelligenza senza cervello (o altro supporto materiale) è plausibile come un’attività digerente senza stomaco.
Dio è, come diceva Aristotele, un motore immobile?
Ma come potrebbe il movimento (e quindi l’energia) originarsi da un motore immobile, ovvero da qualcosa che, per sua stessa definizione, è privo di movimento?
Come può un puro immobile essere al tempo stesso un motore di qualcosa?
La serie dei motori potrebbe essere infinita; lo spazio-tempo ed il movimento potrebbero essere eterni. Valgono anche qui naturalmente le stesse obiezioni mosse al Dio immutabile.
Dio è la causa causante del Tutto, ovvero la causa prima?
Un essere infinito, come abbiamo visto, non può creare e quindi non può neppure causare alcunché al di fuori di se stesso. Può soltanto essere il teatro o lo scenario illimitato della serie delle cause e degli effetti; Dio si riduce – in questo caso – ad essere il contenitore infinito del nostro universo (e di eventuali altri).
Perché poi non ipotizzare una serie infinita di cause? Se ogni elemento della serie è spiegato da quello/i precedente/i – e se detta serie è infinita – non c’è alcun bisogno di postulare una causa esterna.
Una eventuale causa prima non potrebbe che essere naturale. Come potrebbe infatti un Dio immateriale estrinsecare la materia? Come potrebbe un mondo materiale essere “partecipato” da una causa immateriale?
Inoltre, il principio di causalità vale solamente all’interno dello spazio-tempo; la causa è definita dal suo precedere l’effetto, e l’effetto dal suo con-seguire alla causa (effetto e causa simultanei non sono concepibili, in quanto indistinguibili).
Un Dio al di fuori del tempo (come lo immagina la teologia tradizionale) non può precedere nulla, e dunque non può causare alcunché.
Infine, pur ammettendo Dio come causa prima dalla quale dipende ogni cosa, si pone il seguente dilemma: o il male non esiste (in quanto tutto viene da Dio) oppure Dio è responsabile anche delle tragedie le cui cause, in ultima istanza, risalgono a lui…
Dio è l’essere necessario?
Questo modello di divinità si pretende di dedurlo dalla contingenza delle cose del mondo (ovvero dalla loro possibilità di non essere). Se le cose sono contingenti – sostiene l’argomento – avrebbe dovuto esserci un tempo in cui non c’era nulla; poiché però dal nulla non può nascere nulla, deve esserci un Essere Necessario da cui dipendono ed in cui trovano spiegazione i contingenti.
Tralasciando il fatto che dalla contingenza delle cose non segue che vi sia stato un tempo in cui non c’era nulla (la serie dei contingenti – come si è visto – potrebbe essere infinita e trovare in se stessa la propria spiegazione), non può sfuggire che in base al suddetto argomento tutti gli esseri diventino necessari: infatti anche quelli che a prima vista sembrano contingenti derivano la loro esistenza da un essere necessario dunque esistono necessariamente.
Come scrisse il teologo Keith Ward: “Se Dio è un essere necessario, allora tutto ciò che causa deve essere causato necessariamente” (corsivo mio).
Infatti in un essere necessario e semplice come Dio – in cui l’essere e la volontà fanno tutt’uno – non può esserci alcuno spazio per il libero arbitrio e la scelta.
La prova ex contingentia mundi (di tommasiana memoria) si ritorce quindi contro i suoi stessi presupposti, in quanto può solo dimostrare – nel caso fosse valida – che ciò che in apparenza è contingente, in realtà non lo è.
Non c’è nessun motivo per non ipotizzare che sia l’Universo l’essere necessario. Poiché non può essere nato dal nulla (in quanto ex nihilo nihil fit) deve esistere da sempre, e ciò che esiste da sempre non può non essere.
Dio è un essere onnisciente?
Tralasciando il problema – già sollevato – di come possa conoscere gli oggetti sensibili, non essendo dotato né di corpo né di organi di senso, viene inevitabilmente da chiedersi: come mai l’Onnisciente – a cui nulla sfugge – si sarebbe affidato continuamente a prove e ad errori per arrivare dalle prime cellule all’uomo? Se il suo scopo era arrivare all’uomo (come sostengono tutte le religioni monoteiste) perché non l’ha creato direttamente, evitando una storia evolutiva pre-umana costellata da crudeli lotte per la sopravvivenza e da periodiche estinzioni di massa? Le estinzioni di massa del Permiano (avvenute circa 220 milioni di anni fa e precedenti l’avvento dei dinosauri) erano davvero necessarie ai fini della nascita della specie Homo Sapiens Sapiens? O non è forse più plausibile interpretarle in chiave a-finalistica (e quindi “atea”)?
Perché poi avrebbe creato un mondo come questo, sapendo che alcuni animali – per sopravvivere – avrebbero dovuto uccidere (spesso in modo straziante) moltissimi altri animali? Essendo anche onnipotente, non poteva creare un mondo senza sofferenza?
Inoltre, come può un essere onnisciente essere anche intelligente? L’onniscienza non rende superflua l’intelligenza? E l’intelligenza non contraddice l’onniscienza, dato che consiste nell’apprendimento del nuovo?
Infine, un essere onnisciente, onnipotente e semplicissimo, nel quale la conoscenza di tutti gli eventi della storia del mondo fa tutt’uno con la volontà della loro realizzazione, come potrebbe non annientare la libertà umana? Come potrebbe la libertà, nella sua intrica indeterminatezza ed imprevedibilità, rientrare al tempo stesso nei decreti eterni dell’Onnisciente?
Dio è il supremo legislatore morale?
Se si parla del Dio delle religioni, basta una rapida scorsa ai loro testi per appurare l’esatto contrario.
Non bisogna dimenticare che è proprio il Dio della Bibbia ad ordinare ad Abramo di condurre il figlio Isacco su un monte per offriglielo in sacrificio (Gen. 22.2), salvo poi fermarlo all’ultimo momento in quanto soddisfatto della prova (con buona pace della tanto conclamata onniscienza).
È il Dio della Bibbia a prescrivere pene che oggi consideriamo barbariche come: la lapidazione degli adulteri (Lev. 20.10; Deut. 22.22) e degli omosessuali (Lev. 20.13), la pena di morte per chi adora e sacrifica ad altri dei (Es. 22.19), per le donne che praticano la magia (Es. 22.17), per coloro che si prostrano davanti al sole o alla luna (Deut. 17), per coloro che lavorano il sabato (Num. 15. 32,36), e per infiniti altri peccati immaginari.
È il Dio della Bibbia a dare ai genitori delle ingiunzioni che qualsiasi pedagogista oggi riterrebbe crudeli e disumane: ogni volta che i figli sbagliano, li si deve percuotere con la verga (Prov. 13.24 – 20.30 – 23.13,14). Se poi sono tanto svergognati da ribattere o reagire, la pena ancora una volta è la morte (Deut. 21. 18,21; Lev. 20.9); su questo punto lo stesso Gesù, tanto noto per la sua etica del perdono e dell’amore, non si discostava, al punto da rimproverare i farisei di non mettere adeguatamente in pratica i diktat pedagogici della Torah (Mc. 7. 9,13 e Mt. 15. 4,7).
È il Dio della Bibbia (non a caso detto anche Dio degli Eserciti) a comandare a più riprese agli ebrei, il suo popolo eletto (!), di invadere le terre degli idolatri – il cui unico “torto”, ricordiamolo ancora, era quello di adorare altri dei – e di massacrarli spietatamente, senza risparmiare donne e bambini (per limitarmi solo ai passaggi più noti: Giosuè 6. 21,27 – 8.1,2 – 8. 22,25 – 10. 10,39); (Num. 31); (Deut. 3. 21,22); ecc. ecc.
È il Dio della Bibbia ad esigere i figli primogeniti come offerta sul suo altare (Es. 22.28), salvo poi condannare i sacrifici umani quando a praticarli sono le nazioni politeiste in onore degli dei rivali (Deut. 12.30,31).
È il Dio della Bibbia a legittimare ed a regolamentare la schiavitù (Es. 21. 1,6; Lev. 25. 44,46), a permettere ad ogni uomo di vendere la propria figlia come schiava per motivi sessuali (Es. 21. 7,11), ed a stabilire la subordinazione della donna (Gen. 3); tant’è vero che in Deut. 20.17 il decimo comandamento include, tra le “proprietà” altrui che non si devono desiderare, sia la moglie che gli schiavi.
Passando al Nuovo Testamento, che molti ritengono costituire un notevole progresso rispetto all’Antico, abbiamo già detto del dolce e misericordioso Gesù che giustificava l’uccisione dei figli ribelli proprio richiamandosi alla Legge ebraica.
Per lui infatti la Torah era talmente vincolante che dichiarò a chiare lettere:
“Non dovete pensare che io sia venuto ad abolire la legge di Mosè e l’insegnamento dei profeti. Io non sono venuto per abolirla ma per compierla in modo perfetto. Perché vi assicuro che fino a quando ci sarà il cielo e la terra, nemmeno la più piccola parola, anzi nemmeno una virgola, sarà cancellata dalla legge di Dio; e così fino a quando tutto non sarà compiuto. Perciò, chiunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (Mt. 5. 17,20)
Non bisogna dimenticare inoltre che Gesù, nonostante predicasse il perdono e l’amore per i nemici, era convinto che chi non credeva in lui fosse paragonabile ad un tralcio che si secca e viene gettato a bruciare nel fuoco (Gv. 15.6); sarà questo uno dei passaggi del Vangelo ad essere facilmente strumentalizzato nei secoli a venire dalle inquisizioni contro gli eretici ed i non credenti.
Nessun passaggio né dei Vangeli né delle Lettere apostoliche contiene una sola critica contro la prassi della schiavitù; al contrario, molte parabole di Gesù presuppongono come naturale il rapporto servo/padrone, mentre per Paolo di Tarso gli schiavi devono obbedire ai loro padroni con “timore e tremore” (Lett. agli Efesini 6.5) e chi insegna il contrario si pone contro le parole di Cristo e non deve essere ascoltato (1 Timoteo 6.1,5). Le donne, dal canto loro, devono tacere durante le assemblee e stare sottomesse “come dice anche la legge di Mosè” (Lett. ai Corinzi 14. 33,35) ed obbedire ai loro mariti in quanto loro capi (Lett. agli Efesini 5.22,24 – Lett. ai Colossesi 3.18).
Il Dio islamico non è migliore di quello biblico. Al contrario, sono numerosi i passaggi del Corano in cui si incita alla lotta armata contro i miscredenti. Eccone un elenco molto incompleto:
“Uccidete gli infedeli ovunque li incontriate. Questa è la ricompensa dei miscredenti” (Sura 2,191)
“Instillerò il mio terrore nel cuore degli infedeli; colpiteli sul collo e recidete loro la punta delle dita…I miscredenti avranno il castigo nel Fuoco! ….Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi” (Sura 8, 12-17)
“Quando poi saranno trascorsi i mesi sacri uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, catturateli ovunque in imboscate! Se poi si convertono e compiono la Preghiera e pagano la Decima, lasciateli andare” (Sura 9,5)
“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah ed il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati. Dicono i giudei: “Esdra è figlio di Allah”; e i cristiani dicono: “Il Messia è figlio di Allah”. Questo è ciò che esce dalle loro bocche. Li annienti Allah. Quanto sono fuorviati!” (Sura 9, 29-30 corsivo mio)
“(Gli ipocriti e i miscredenti) Maledetti! Ovunque li si troverà saranno presi e messi a morte” (Sura 33,61)
Avete avuto un bell’esempio in Abramo ed in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: ‘Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio (che continueranno) ininterrotti, finché non crederete in Allah'” (Sura 60,4)
Molti sono i versetti che riguardano anche la posizione d’inferiorità della donna; dall’obbligo di essere velate (Sura 24,31) alle punizioni corporali in caso di insubordinazione (Sura 4,34), per non parlare della esplicita dichiarazione di superiorità dell’uomo sulla donna (Sura 2,228) e della eredità dimezzata per le figlie femmine (Sura 4,11).
Come la Bibbia, anche il Corano considera cosa normalissima la schiavitù (cfr. Sura 2,221 – Sura 2,178 – Sura 70,29-30). Le pene coraniche inoltre possono essere descritte soltanto come atroci ed inumane. La Sura 5,38 ad es. prevede l’amputazione della mano destra per i ladri; in caso di recidività, il piede sinistro, poi si ricorre alla carcerazione. La Sura 5,33 prevede la crocifissione e l’amputazione di mani e piedi per coloro che combattono l’islam e Maometto. La Sura 4,15 sancisce l’imprigionamento a vita delle donne che abbiano commesso adulterio o fornicazione (il termine arabo in entrambi i casi è “zina”); non manca tuttavia l’Hadith (detto del Profeta) che giustifica la lapidazione degli adulteri (Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206), ed è a questo che in genere si rifanno gli stati teocratici che praticano la Sharia (la legge islamica basata sul Corano e sulla Sunna, ovvero gli Hadith riconosciuti dalla tradizione). La Sura 24,2 prescrive cento frustate per la fornicazione: “L’adultera e l’adultero siano puniti con cento colpi di frusta ciascuno, né vi trattenga la compassione”.
Per quanto riguarda infine l’apostasia, un Hadith (Muhammed Ibn Isma’Il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari, vol. 9, libro 88, n. 6922) stabilisce chiaramente la pena di morte per chi si allontana dall’Islam dopo averlo conosciuto.
A giudicare da quanto sopra, il Dio delle religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islam) non sembra proprio meritare l’appellativo di legislatore morale. Le pene crudeli e i precetti anacronistici che ritroviamo in tutte e tre non corrispondono infatti all’ethos umanistico su cui sono fondate le costituzioni degli stati più civili e rispettosi dei diritti della persona.
Se ci riferiamo al Dio della religione naturale risulta ugualmente molto difficile fondare un codice etico; ambiguo e indefinito è il concetto di “natura”, al punto che nel corso della storia del pensiero diverse morali, anche contrastanti tra loro, sono state presentate come “naturali” (ad es. per gli Stoici e per gli Illuministi la natura costituisce il fondamento di qualsiasi etica incentrata sull’uguaglianza di tutti gli uomini, mentre per alcuni Sofisti, per Gobineau e per i nazisti non c’è nulla di più naturale delle diseguaglianze…).
Se dovessimo dedurre la morale di un ipotetico Dio architetto dal suo prodotto (la Natura) potremmo anche arrivare a concludere che – così come il pesce grosso mangia il pesce piccolo – allo stesso modo deve funzionare tra gli uomini.
In realtà, il problema più grande che deve affrontare chi considera il Dio-Architetto come legislatore morale è – ancora una volta – quello della teodicea: se non si riesce a scagionare Dio dall’accusa di volere o di permettere il dolore, non si può affermarne la bontà e la giustizia; e dunque non si può fondare la morale a partire da lui.
Dio è un essere perfetto e autosufficiente?
Posto che non sia anche a-temporale (nel qual caso non potrebbe fare assolutamente nulla), si deve presumere che – dopo un tempo illimitato trascorso in assoluta inattività (!) – ha deciso di creare. Perché l’ha fatto?
Si sentiva solo? Se è perfetto deve bastare a sé stesso (auto-sufficiente).
Voleva aumentare la propria felicità? Ma non è infinitamente beato proprio in quanto perfetto?
L’ha fatto ad maiorem gloriam suam? Ha senso parlare di gloria quando c’è competizione. Un Dio solitario ed onnipotente contro chi dovrebbe gareggiare?
È stato mosso dall’amore? Ma è concepibile amare qualcosa che deve ancora esistere? E anche tralasciando questa difficoltà, come giustificare le sofferenze che straziano le sue creature? Come concepire che dall’eterno amore di un soggetto onnipotente ed onnisciente sia scaturita una natura così matrigna ed indifferente ed un umanità così mediocre e meschina? Possiamo seriamente ascrivere al sentimento dell’amore una creazione in cui la natura è dominata dalla legge del più forte e la vita è una continua e dolorosa lotta per la sopravvivenza?
Ha creato per mettere alla prova gli uomini? Ma, posto che sia onnisciente, che bisogno ha di condurre degli esperimenti sulle sue stesse creature – spesso consistenti tra l’altro in prove crudeli come ben esemplifica il libro di Giobbe?
Le centinaia di milioni di morti dovuti alle guerre, ai genocidi ed alle più atroci prevaricazioni dell’uomo contro l’uomo di cui è insanguinata la storia sarebbero semplicemente delle prove di cui LUI conosceva a priori l’esito?
Ha voluto mettere alla prova sé stesso, ovvero saggiare la propria intelligenza e il proprio potere? Ma, ancora, se è onnisciente, che bisogno aveva di farlo?
In poche parole: perché Dio, un essere in cui tutto è perfezione, ha deciso di creare?
Se, come abbiamo mostrato, non aveva motivi per farlo (non sono concepibili altri motivi oltre a quelli summenzionati, escludendo ovviamente la follia), ne consegue che la creazione è un atto assolutamente arbitrario e immotivato.
Ma che cosa distingue un universo creato senza alcuna ragione da un universo originatosi per puro caso? Ovvero, un universo creato da un dio indifferente a ciò che crea da un universo senza dio (a-theos in greco = senza dio)?
In entrambi i casi la ragione ultima dell’esistenza dell’universo è quella di essere gratuita, ovvero senza ragione.
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