Gardenio Granata, Cesare Pavese. Dialogare con Leucò: il mito greco fra noia e disastro della vita
Pavese era un inconsolabile al pari di Orfeo, un uomo e poeta disperato che non era riuscito ad esprimersi negli affetti e anche dopo che era arrivato finalmente il successo letterario si era sempre sentito un escluso dal mondo degli altri. Come scrive nel “Mestiere di vivere”, il suo Diario tra il 1935 e 1950 pubblicato postumo, la letteratura per lui rappresentava una fuga e “una difesa contro le offese della vita”.
Nel 1937 riassume la sua posizione di “fallito” in maniera molto concisa:
“Il vero raté non è quello che non riesce nelle grandi cose – chi mai c’è riuscito? – ma nelle piccole. Non arrivare a farsi una casa, non conservare un amico, non contentare una donna: non guadagnarsi la vita come chiunque. Questo è il “raté” più triste.”
Il “raté” di Pavese è un fallito, un non riuscito che assomiglia all’inetto di Svevo o all’uomo senza qualità di Musil. Sul piano privato Pavese in effetti non si era mai sposato e viveva con la famiglia di sua sorella. Oltre agli insuccessi nella sfera degli affetti aveva faticato anche parecchio ad ottenere una posizione lavorativa stabile, tuttavia era il fatto di non stare con una donna che gli procurò la sofferenza maggiore. I tempi in cui ha vissuto non erano sicuramente facili, la prima guerra mondiale da bambino, la seconda da uomo maturo, ma lui stava molto peggio anche dei suoi contemporanei.
Nel 1936 scrive di sé stesso: “Non ho mai lavorato davvero e infatti non so nessun mestiere”. In verità di cose nella vita ne aveva fatte fin da giovane. Non era riuscito a lavorare come assistente all’università (chi mai c’è riuscito?, potremmo aggiungere oggi) ma fin da giovane aveva tradotto molti classici della letteratura americana.
Negli anni del successo letterario pare che Pavese fosse diventato un po’ meno disperato ma nel 1950, complice una storia d’amore infelice, ricadde nel suo solito pessimismo:
“La beatitudine del 48-49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo – l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio.”
Prima di suicidarsi a poco meno di 42 anni aveva pensato al suicidio per almeno 15 anni (Aprile 1936: “So che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore.”). Quando ebbe veramente luogo tutti parevano molto sorpresi, in fondo il successo letterario era arrivato e (seppur tardi) aveva persino ottenuto una posizione lavorativa stabile presso l’Einaudi per la quale stava lavorando come direttore editoriale a partire da metà degli anni ’40, dopo molte collaborazioni a partire dalla metà degli anni 30.
I suoi problemi con le donne sono legati all’impotenza a causa della quale non riusciva ad accontentarle:
“Naturalmente tutti ti dicono «che importa? Non c’è solo questo. La vita è varia. L’uomo vale per altro» ma nessuno – nemmeno gli uomini – ti danno un’occhiata se non hai quella potenza che irradia. E le donne ti dicono «che importa? ecc.» ma sposano un altro.”
Quando Pavese nel 1936 era tornato dal confino la sua compagna Tina Pizzardo, un’insegnante comunista, aveva sposato un altro e lui era rimasto malissimo.
“La cosa segretamente e più atrocemente temuta, accade sempre. Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. Et voilà.”
Verso la fine della sua vita l’insuccesso a livello sessuale stava diventando quasi un’ossessione per lui. Si confrontava sempre più con gli altri che riuscivano a condurre una vita più serena e felice di lui. (“Gli dèi per te sono gli altri, gli individui autosufficienti e sovrani […]”). Più si avvicinava la fine della sua vita, più numerosi diventavano i pensieri ricorrenti al suicidio come la seguente riflessione che apre l’anno 1947 nel Diario:
“Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?”
La conclusione è sempre la solita: solitudine estrema e non contare niente per nessuno. Il successo letterario non gli bastava perché mancava la donna con cui condividerlo, mancavano gli amici leali, gli affetti, la famiglia. Il seguente pensiero voleva forse discolpare l’ultimo amore della vita di Pavese:
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.”
L’ultima storia d’amore fu quella con l’attrice americana Constance Dowling, venuta in Italia perché la sorella Doris Dowling nel 1949 aveva recitato in “Riso Amaro” di Giuseppe de Santis. Constance aveva già una relazione con l’attore Andrea Cecchi e l’innamoramento di Pavese (peraltro breve, i due si conobbero alla fine del 1949) non fu mai contraccambiato. In ogni caso fu forse lei a spingerlo al gesto supremo che premeditava da tempo ma che nell’agosto del 1950 stava diventando sempre più concreto: “Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”.
L’ultima annotazione nel diario è: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.
Prof. Gardenio Granata
20 Novembre 2021
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