Gardenio Granata, La debolezza della volontà: un “topos” letterario e filosofico
Knowing the right, but pursuing the wrong: the weakness of will
[La debolezza della volontà: un “topos” letterario e filosofico]
Siamo debitori a Ovidio che nel Libro VII delle “Metamorfosi” (vv. 19-20) fa dire a Medea innamoratasi di Giasone: «Video meliora proboque, / Deteriora sequor!» → «Vedo e approvo il meglio, ma seguo il peggio!». Colei che, secondo la tradizione, tradita e abbandonata poi dall’uomo che amava e per il quale aveva trasgredito gli ordini del padre Eeta abbandonato nella mitica Colchide e seguito per mare il capo degli Argonauti, diventerà la sanguinaria assassina dei propri figli ancora bambini!
Medea quindi inaugura con le parole sopra riportate quel dissidio interiore fra ragione e passione che avrà nei secoli una lunga e permanente storia sia in ambito letterario che filosofico-psicologico! Nel testo ovidiano si tratta di passione amorosa cui non sa resistere, in seguito “il peggio” assumerà una più variegata morfologia… scelte di vita che si riveleranno sbagliate o che già erano avvertite come pericolosamente “devianti”: tema su cui insiste e incentra la sua indagine R.L. Perkins, pedagogista inglese di fine 800’ (il titolo di questa mia breve ricerca riprende un suo scritto del 1879 comparso nella rivista “New England Journal of Education” dove con lungimiranza individuava nello scontro tra consapevolezza di ciò che è “right” e “wrong” uno dei punti cardine su cui intervenire per smussare l’ostacolo principale per una corretta e “interiorizzata” educazione).
Già i Greci impiegavano il termine “akrasìa” a indicare “debolezza della volontà” in particolare nelle scelte etico-politiche (inutile negare che quella lontana parola greca sarebbe perfettamente applicabile anche oggi alla ondivaga responsabilità dei nostri politici!!). Ma quel dissidio interiore, un vero e profondo tormento indicante la fragilità della nostra coscienza, troverà in Paolo di Tarso (“Lettera ai Romani”, VII, 18-19) un interprete coraggioso: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio».
Anche se poi aggiungerà a parziale discolpa una proiezione che lascio a voi valutare: «Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, bensì il peccato che abita in me». Gli esegeti dei testi sacri si affrettano a sostenere che San Paolo non aveva intenzione di negare la responsabilità personale dell’uomo per il male, ma non pochi dubbi restano irrisolti! Se il peccato abita in noi verrebbe da pensare ad una trasmissibilità della colpa progenitoriale (Adamo ed Eva nell’Eden!), contravvenendo in tal modo ad un principio del diritto che lo stesso Paolo in altre Lettere riconosceva: come si è responsabili del bene (“Lettera ai Galati”, 2, 20) così ciascuno deve assumersi la responsabilità del male di cui dovrà rispondere nel giorno del Giudizio Universale davanti a Dio!!
Ebbi modo qualche anno fa e la fortuna di poterne discutere con quel grand’uomo del Cardinale Ersilio Tonini a Bologna poco tempo prima della sua scomparsa, e ricordo che a fronte delle mie obiezioni rispettose della sua immensa cultura e umanità, lui stesso mi disse che ne avremo saputo di più una volta traghettata questa palude terrena… Fantastica e umile persona! Anche Sant’Agostino, uomo partito dal frequentare bordelli e compagnie dove si faceva uso di droghe orientali in assoluta promiscuità, era poi giunto a riconoscere che «inquietum est cor nostrum, Domine, donec in te requiescat», nel “De natura et gratia” (67, 81) scrive: «vedo quello che esige la rettitudine delle azioni e lo voglio e non riesco a farlo».
Ancora una volta le componenti frammentate dell’animo collidono a segnalare l’intramontabile conflitto interiore che richiama alla nostra mente il noto verso del commediografo latino Terenzio nella commedia dall’emblematico titolo greco “Heautontimorumenos” → “Il punitore di se stesso” (I, 1, 25) laddove il vecchio Cremete dice: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» (“Sono un uomo, e nulla di ciò che è umano lo ritengo a me estraneo”), per indicare sia la weakness of will che l’appartenere all’essere umano ogni forma di “curiositas” intelligente (non a caso l’Umanesimo farà di quel verso terenziano il proprio motto!).
Ed eccoci all’inquieto e modernissimo Petrarca del Canzoniere (264, v. 136) il quale rendendosi conto di aver vissuto tanto e d’essere prossimo alla fine, quasi stupito di se stesso e di cercare ancora una norma con cui governare la vita, nell’ultimo verso, ricordando sia le parole dell’ovidiana Medea, che quelle di San Paolo scrive: «e veggio il meglio, e al peggior m’appiglio». Riconoscendo così come la sua intera esistenza sia stata divisa tra una volontà debole perennemente ondeggiante fra le Sirene della gloria, del prestigio, della fama, degli amori e un porto sicuro dalle tempeste della vita!
Lo stesso Boiardo nell’Orlando Innamorato (Libro I, Canto I, 31) praticamente riprende il verso petrarchesco: «Ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio» con valenze similari seppur nella dimensione di un poema epico-cavalleresco. Il grande Foscolo (ammiratore di Petrarca sul quale ha scritto anche un saggio!) nella parte finale del Sonetto II conclude (vv. 12-14): «Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte, / Conosco il meglio ed al peggior m’appiglio, / E so invocare e non darmi la morte». Dove notiamo subito il verbo “conosco” a indicare una precisa consapevolezza inutile però a tenerlo lontano da passioni fulminanti e dirompenti come tutta la sua vita di combattente, amante e poeta nostro e non solo tra i più eccelsi.
Prof. Gardenio Granata
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