Gardenio Granata, Eutanasia: una lunga storia
«Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit,
quod homini dedit optimum in tantis vitae poenis»
(Plinio Senior, Naturalis Historia, II, 5)
Da qualche tempo a questa parte, nel gergo giornalistico e televisivo di molti “intellettuali mediatici”, laici e cattolici, la parola eutanasia è divenuta impronunciabile; quasi colui che osa pronunciarla commetta un peccato mortale, un crimine e sia destinato, in ogni caso, alle voraci fiamme dell’inferno.
Eppure, per oltre duemila anni, ha conservato l’originario significato che ben conoscono quanti hanno ancora una qualche familiarità con il greco antico: morte felice, serena, dolce e, comunque, nobile e razionale, alla quale si espone il saggio «per la patria e per gli amici e nel caso in cui sia vittima di dolori acuti o di menomazioni o di malattie incurabili» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 130).
Questa violenta campagna condotta senza esclusione di colpi contro una nozione considerata da Dante stesso legittima quando è in gioco la più elevata esigenza dell’umanità, vale a dire la libertà, è la conseguenza di un pregiudizio storico maturato nella coscienza di non pochi intellettuali con il progressivo declino delle ideologie e delle utopie fondate sull’emancipazione dell’uomo dalla religione, e, in primis, dal cristianesimo: il pregiudizio secondo cui la tradizione giudaico-cristiana è decisamente superiore alla sapienza pagana, alla filosofia e a ogni altra forma del sapere umano; un pregiudizio che rivela una straordinaria, e in qualche caso grossolana, ignoranza non solo della “history of ideas”, ma anche della storia “tout court”.
I fautori del primato della tradizione giudaico-cristiana dimenticano, “exempli gratia”, come nella storia dell’ebraismo si annoverino almeno due episodi emblematici di eutanasia collettiva: durante la prima guerra giudaica, quando gli Zeloti rifugiatisi nella fortezza di Masada, assediata dall’esercito romano, preferirono darsi la morte piuttosto che accettare la schiavitù imposta loro dai Romani. Durante la prima Crociata del 1096, poi, molti ebrei delle comunità che risiedevano nella regione renana, optarono per darsi la morte pur di non subire la conversione forzata al cristianesimo imposta loro dai crociati.
Quando poi si ricorre impropriamente al concetto classico di eutanasia per dare un nome all’eliminazione medica di disabili e di malati mentali, consumata dai nazisti negli anni trenta in Germania, oltre a incorrere in un grave errore linguistico-concettuale, si dimentica che quei crimini, nulla aventi a che spartire con l’eutanasia, furono commissionati e commessi da uomini che, nella maggioranza dei casi, erano e si proclamavano cristiani.
Quanto alla storia delle idee, chiunque abbia una qualche cognizione delle origini del cristianesimo e della conseguente formazione della teologia dogmatica, sa come senza il concetto platonico di anima immortale, ignorato dai testi neo-testamentari che al contrario annunciano la resurrezione dei corpi, seguendo in questo i farisei, i Padri della Chiesa non avrebbero trovato una risposta plausibile al mancato realizzarsi degli eventi escatologici annunciati con tanta precisione dal messia di Nazareth per la propria generazione nel suo discorso più lungo, cioè nella “Apocalisse di Marco”, 13.
La stessa nozione di Trinità sarebbe rimasta un mistero insolubile senza il soccorso della teologia filosofica di Aristotele e dei pensatori neoplatonici secondo cui Dio (l’Uno) è, nella sua essenza, Essere, Vita eterna e Pensiero che pensa se stesso: questa triade di origine metafisica ha permesso a Mario Vittorino e ad Agostino di conferire al dogma trinitario quell’ossatura concettuale unitaria in condizione di conciliare il monoteismo ebraico con il trinitarismo cristiano. Se dal dominio proprio della formazione del dogma e della sua fondazione e legittimazione razionale, cioè filosofica, passiamo al dominio dell’etica e della dottrina sociale, l’adozione delle nozioni stoiche di legge morale o naturale, o legge di Dio, o anche diritto naturale – nozioni ignorate tanto dall’Antico quanto dal Nuovo Testamento – da parte della Chiesa romana, nonché la loro assunzione a principi e a norme fondanti i rapporti con lo stato, è così nota da non necessitare di prove o attestazioni.
Eppure oggi non solo la Chiesa cattolica, ma in prima linea i suoi sostenitori e propagandisti mediatici ne rivendicano la paternità esclusiva. Va altresì sottolineato l’aspetto forse più decisivo in cui la teologia cristiana si è radicalmente allontanata dal messaggio originario del messia di Nazareth; esso consiste nell’aver adottato l’interpretazione metafisica del male come “privatio boni” di matrice aristotelica o, da ultimo, come “male necessario” di origine hegeliana. In realtà, per Joshua di Nazareth la storia che sta per finire, con l’imminente avvento del Regno di Dio, è dominata dal male, dal principe che governa questo mondo, da Satana, di cui ha respinto le tentazioni sul monte omonimo prima di affrontare la sua missione. In verità, fra il cristianesimo, o meglio “i cristianesimi”, delle origini e la dogmatica attuale della Chiesa di Roma, l’abisso è incolmabile per chiunque, dotato di senso storico, legga attentamente il Nuovo Testamento.
Rivendicare quindi una sorta di superiorità della tradizione giudaico-cristiana rispetto alla tradizione filosofica è, in realtà, la spia, nella migliore delle ipotesi, di una deliberata volontà d’ignorare gli argomenti della storia; nella peggiore, un pregiudizio dettato dalla nostra fragilità e angoscia nell’affrontare la certezza e il mistero che caratterizzano cooriginariamente per ogni uomo la verità propria della morte. Ma c’insegnano gli antichi: l’uomo deve saper affrontare la morte facendo leva su ciò che lo individua in modo eminente, il “Logos”, vale a dire la parola e la ragione.
Deve rivendicare per sé il diritto, quindi la libertà, di scegliere la propria morte, ben sapendo non essere essa il peggiore dei mali ma la definitiva liberazione dal male, la “anàpausis”, la pace eterna, come recita una delle più emozionanti preghiere cristiane. “Euthanasia” è nozione greca per eccellenza. I Greci, infatti, non hanno mai temuto la morte, e questo atteggiamento è stato ereditato, fatto proprio e ampiamente teorizzato dai Romani. Cicerone, in una lettera all’amico Attico, cita la parola nell’originale greco. D’altra parte, la più antica e diffusa determinazione concettuale dell’uomo che incontriamo nelle opere dei poeti e dei pensatori greci è o “thznetòs” o “brotòs”, che significa il mortale: colui che, consapevole della propria destinazione alla morte, l’attende, giacché la morte stessa è, a sua volta, in attesa dell’uomo. La vita, perciò, non è altro che preparazione alla morte, a questo incontro che, in virtù della sua definitività e irripetibilità, unico può conferire unità e senso, e quindi verità, alla vita stessa.
Così un uomo può unicamente venire giudicato da come egli affronta la morte, da come si prepara all’incontro con essa. Il dio della teologia delfica ricorda ai suoi fedeli, ad ogni passo del loro cammino, la sola verità inconfutabile: “memento mori”, non dimenticarti d’essere mortale. Nel giorno della sua morte, Socrate ci ammonisce che la filosofia stessa è nella sua essenza “cura mortis”, anche se, nel mito escatologico con cui si conclude nel Fedone la lunga conversazione con Simmia e Cebete che precede la cerimonia drammatica della cicuta, attribuisce all’anima una destinazione non mortale.
La filosofia come “cura mortis” è infine il nucleo essenziale della saggezza stoica, come chiarisce in modo limpido il frammento di Crisippo citato da Diogene Laerzio e più sopra riferito. Morire bene è il primo compito cui dev’essere educato l’uomo e giacché la certezza della morte appartiene al novero delle verità incontrovertibili, appartiene alla sapienza piuttosto che alla scienza; morire bene è quindi un dovere per chi ha dedicato la propria vita al perseguimento della virtù, coltivando la sapienza in sé e negli altri, pronto a lasciare volontariamente questo mondo quando le circostanze lo suggeriscano o lo impongano e, in ogni caso, la ragione lo consigli.
Sull’eutanasia
Chi la pensa diversamente ritiene invece che finora Sade sia stato studiato in modo troppo parziale e alquanto tendenzioso, facendolo servire da puntello alle tesi azzardate più assurde e balzane; il fatto è che il suo pensiero a chi voglia vedervi soltanto il frutto mostruoso di una mente malata, sull’orlo della follia, appare come un paradosso e una contraddizione unica e offre il destro a interpretazioni spericolate e illeciti contrabbandi.
L’esempio più chiaro di una condotta di vita improntata alla sapienza stoica ci viene offerta da Seneca, dalla sua opera e dalla sua vita: in particolare da quelle Lettere a Lucilio che occuparono gran parte dei suoi giorni fra il 62-63 e il 65 d.C., nei tre anni che precedettero la sua morte, quando, ritiratosi dalla vita pubblica, nell’impossibilità di porre un freno alle nefandezze del suo pupillo Nerone, dedicò il suo tempo alla stesura del suo “libro di filosofia morale”. L’epistola VIII, 70 è una chiara testimonianza di come il saggio stoico debba prepararsi all’incontro con la morte – “aut finis, aut transitus” –, che reputa ormai imminente: la “meditatio mortis” che accompagna le sue giornate e gli consente di annotare come il pensiero della morte contenga in sé la sua cura e muti quanto si presenta a prima vista a livello di una necessità insuperabile in una forma di libertà assoluta, che contempla anche quindi la possibilità di darsi liberamente, volontariamente e serenamente la morte.
Seneca argomenta in che modo possa accadere che l’”iter mortis” sia altresì “libertatis via”. Tale “meditatio” ci consente di comprendere la giusta preparazione all’evento atteso che possiamo cogliere e apprezzare nella descrizione icastica che ne offre Tacito nel libro XV degli Annales. La morte volontaria del Cordovese e dell’amata consorte Paolina sono uno dei più fulgidi exempla di “eutanasia”, di morte affrontata con serenità e coraggio. La lettera 70 si apre con una affermazione presupponente un’idea di continuo ribadita da Seneca: l’unica vera vita per un uomo è quella che si sa riservare a se stessi, alla propria anima, alla propria formazione, al proprio perfezionamento. Gli affari, i piaceri, le ricchezze, il potere, sono falsi beni, costituiscono la “personata felicitas”, vale a dire una mascheratura della felicità: si pensi al passo dell’epistola 59, 14 che recita: «si appetis voluptates et undique et omnes, scito tantum tibi ex sapientia quantum ex gaudis deesse» («se desideri i piaceri e li vuoi comunque e tutti, sappi che sei tanto lontano dalla saggezza quanto dalla gioia»).
In sostanza, non sappiamo vivere: “praenavigavimus vitam” («costeggiamo la vita»), non viviamo, con “praenavigare”, verbo tipico di chi vede la terra dalla barca, senza mai scendere a terra. Purtroppo l’uomo non sa vivere, trascorre l’intera vita a prepararsi gli “instrumenta vitae” e muore senza aver imparato a dedicarsi a se stesso: in definitiva «vivit qui multis usui est, vivit is qui se utitur» («è vivo chi è utile a molti, vivo è chi fa buon uso di se stesso»).
Dalla barca scendiamo a terra nella tarda vecchiaia, tentando di recuperare il tempo perduto, intanto è passata l’infanzia, la giovinezza, la maturità, scendiamo a terra quando ogni recupero è impossibile; non è vero che la vita sia breve, (cfr. del “De brevitate vitae” l’incipit: «Maior pars mortalium de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignimur […]» («La maggior parte dei mortali si lamenta della cattiveria della natura, perché siamo generati per un’esistenza breve […]») o l’incipit del “Bellum Iugurthinum” di Sallustio: «Falso queritur de natura sua genus humanum, quod imbecilla atque aevi brevis […]» («A torto il genere umano si lamenta, perché la sua natura debole e di breve durata […]») ma siamo noi a renderla tale considerando il tempo qualcosa che si può sprecare!
L’immagine del tempo che passa e travolge ogni cosa è quella della nostra vita che con grande velocità arriva alla meta (cfr. § 2): “in hoc cursu rapidissimi temporis”. I nostri timori, i nostri mali non sono quelli reali, ma quelli raffigurati dalla nostra immaginazione. Concretamente, siamo percorsi da tre timori: «timetur inopia, timentur morbi, timentur quae per vim potentioris eveniunt» («si teme la povertà, si temono le malattie, si temono i mali causati dalla violenza di un prepotente»). Queste eventualità sono quelle puntualmente evocate nella nostra lettera: «adversus paupertatem praeparatus est animus…ad contemptum nos doloris armavimus…(§ 18-19). Anzi, in epist. 78, 6, Seneca enuncia le difficoltà che sono ancora tre: «tria haec in omni morbo gravia sunt: metus mortis, dolor corporis, intermissio voluptatum».
Ma, qual è la vita vera? La riflessione sull’unica vita che va vissuta porta Seneca a considerare la possibilità del suicidio quando vi fossero cause vere e serie che impediscono di vivere veramente: « Se vuoi ascoltarmi, medita questa verità e preparati a ricevere la morte e, se le circostanze lo consigliano, a invocarla: non ha importanza ch’essa venga a noi o che noi andiamo da lei. Persuaditi essere falso il detto ripetuto da tutti gl’ignoranti: “è bello morire di morte naturale”. Tutti muoiono di morte naturale. A te stesso dirai meglio: nessuno muore se non nel suo giorno. Tu non perdi nulla del tuo tempo: quello che lasci non è tempo tuo, ma è tempo degli altri». (epist. 69, 6).
Continuando a leggere Seneca troviamo questo breve passo emblematico (epist. 58, 36): «morbum morte non fugiam, dumtaxat sanabilem nec officientem animo» →(«non fuggirò la malattia con la morte, purché la malattia sia guaribile e non crei menomazione allo spirito»). Nel medesimo passo si fissano i principi secondo i quali è permesso togliersi la vita: «hunc (sc. morbum) tamen si scivero perpetuo mihi esse patiendum, exibo, non propter ipsum, sed quia impedimento mihi futurus est ad omne propter quod vivitur; imbecillus est et ignavus qui per dolorem moritur, stultus qui doloris causa vivit» («ma se saprò di dover sopportare per tutta la vita questa malattia, me ne andrò, non per la malattia in sé ma perché essa mi sarebbe d’impedimento a tutte quelle attività che sono il fine della vita; debole e vile è chi per il dolore si dà la morte, stolto chi vive per soffrire». Il suicidio è quindi ammesso quando la malattia o altra causa creano un ostacolo al conseguimento dello scopo per cui viviamo. Quando il corpo, l’edificio in cui viviamo, inizia a sgretolarsi come un edificio fatiscente e in rovina, se ne deve balzar fuori (epist. 58, 35: «prosiliam ex aedificio putri ac ruenti»).
Si ha qui la dicotomia, corpo-anima, dell’uomo, sdoppiamento di eredità platonica che diverrà un pilastro dell’escatologia cristiana. Vi sono tuttavia filosofi, scrive Seneca, i quali affermano (§ 14) non potersi in nessun modo anticipare la morte, negano si possa apportare violenza alla propria vita: «nefas iudicent ipsum interemptorem sui fieri: expectandum esse exitum quem natura decrevit», dove va osservato che, secondo il loro parere, il suicidio è da considerarsi “nefas”, è violazione di qualcosa di sacro, un termine forte come appare nel “De ira” (3, 31, 7): «nefas est nocere patriae». Seneca, invece, pensa che il suicidio appartenga all’assoluta libertà di cui deve godere l’uomo: «hoc qui dicit, non videt se libertatis viam cludere» (qui il Nostro allude ai platonici).
Così il suicidio può diventare il punto culminante della vita etica dell’individuo; senza tale libertà l’uomo cessa di vivere, in quanto vive solamente chi può usare di sé: «vivit is qui se utitur »(epist. 60, 4). Chi non fruisce di questa libertà vive a casa propria, ma è già morto: sulla sua soglia si potrebbe incidere l’epitafio «mortem suam antecesserunt» («la morte se la sono anticipata»). Ironia? Non ci sembra affatto. Leggendo attentamente le opere di Seneca si giunge a concludere che il suicidio risulta essere una via aperta alla libertà (quella che la psicologia esistenziale americana chiama “escape to freedom”), ma solo il “sapiens” può imboccare questa via senza ritorno, prendere questa suprema e irreparabile decisione.
Per questo il soggetto della lettera 70 è il sapiens (§§ 4-5: «itaque sapiens vivet quantum debet, non quantum potest…»). Il suicidio è lecito, ma a condizione che sia frutto di un giudizio assennato. Inoltre Seneca sa bene che molti filosofi davanti alla realtà dei fatti rivelano tutta la loro fragilità: «at multi professi sapientiam levissimis non numquam minis exterriti sunt» (epist. 71, 30: «ma molti che fanno professione di saggezza sono spesso atterriti da minacce molto lievi»). Il problema vero è quindi se la morte «occupanda sit an expectanda» (§11 “se bisogna prevenirla o attenderla”), tanto più che negli anni sanguinosi di Seneca il suicidio era divenuto una sorta di “libido”: la cosiddetta “libido moriendi”, dal Nostro denunciata in epist. 24, 25: «Vir fortis ac sapiens non fugere debet e vita sed exire; et ante omnia ille quoque vitetur adfectus qui multos occupavit , libido moriendi» (“L’uomo forte e saggio non deve fuggire dalla vita, ma uscirne e soprattutto deve evitare quello stato d’animo che s’impadronì di molti, vale a dire la brama di morire”).
Tanta insistenza sul tema del suicidio nelle sue problematiche, nei suoi fondamenti morali, nella sua casistica, si spiega con la cura del moralista di formarsi idee chiare e coscienza retta in modo da giustificare se stesso davanti a Lucilio e ai posteri e giustificare anche tutti quelli che la tirannide spingeva più o meno perentoriamente al suicidio. Questi discorsi presuppongono in Seneca una concezione chiara di cosa attenda l’uomo nel mondo ultraterreno, una volta abbandonata la misera prigione del corpo. Merita soffermarsi anzitutto su di un passo a torto trascurato, forse considerato una pura ipotesi (puta…). In epist. 93, 10 Seneca scrive: «sed tolli me de medio puta et post mortem nihil ex homine restare; aeque magnum animum habeo, etiam si nusquam transiturus excedo» («ma supponi che io sia tolto di mezzo e che dopo la morte non rimanga nulla di quello che era un uomo, ugualmente io avrei coraggio, anche se nel passaggio non vado a finire da nessuna parte»).
Il passo è estremamente importante perché non condiziona il suicidio all’esistenza dell’aldilà. Anche se, una volta morti, in qualunque modo e per qualsivoglia motivo, cadessimo nel nulla assoluto, al suicidio il sapiens ricorre solo se ha perduto la libertà o teme di perderla. Egli non muore coraggiosamente per essere convinto gli sia aperto il cammino che lo conduce agli dei (cfr. ancora epist. 93, 10: «Nec hac spe, inquit sapiens ille, fortius exeo, quod patere mihi ad deos meos iter iudico». → (“ Il saggio potrebbe dire: non lascio la vita più serenamente solo perché spero che mi si apra la strada verso i miei dei”).
Come si vede, l’aldilà è ininfluente sulle decisioni che il sapiens stoico può assumere. Queste affermazioni di Seneca portano a distinguere nettamente il suicidio stoico dal martirio ebraico o cristiano cui spesso è stato assimilato o quasi. E ciò merita d’essere osservato, anche a motivo di un passo di Marco Aurelio che cita espressamente i cristiani (11,3): «Che anima è quella preparata a separarsi, quando che sia, dal corpo! Preparata o a spegnersi, o a disperdersi, o a sopravvivere! Ma questa preparazione venga dal proprio giudizio, e non sia l’effetto di una vana ostinazione, come quella dei cristiani; sia ragionata e dignitosa, in modo da persuadere gli altri, e non si manifesti con atteggiamenti da tragedia». Lucilio deve abitare in questa prigione del corpo tamquam migraturus (§17), ma non c’è meditazione più necessaria della morte, perché tutti i malanni all’uomo possono capitare oppure no, ma la morte è un incontro inevitabile. La povertà, ad esempio, spaventa ma inutilmente, in quanto i passaggi di condizione sono mutevoli e talora imprevedibili.
E così si può dire delle malattie e di ogni altra avversità e, quindi, il problema del saggio stoico non è la morte ma la vita. Però alla vita si deve rinunciare se non ha più le credenziali per cui valga la pena sia vissuta. Certo è che la vita «non semper retinenda est: non enim vivere bonum est, sed bene vivere» (§ 4) → (“non sempre la vita va conservata: infatti non è un bene vivere, bensì vivere bene”). I §§14-17 della lettera 70 sono infarciti del termine “exire” con “exitus” ed “exeundum”. Esso tradisce la teoria che l’ha prodotto: il concetto platonico del “sòma” quale prigione dell’anima che, quando sopravviene la morte, “esce” dal corpo (tale attribuzione la si deve ai seguaci di Orfeo, dato che per questi l’anima sconta la pena delle colpe che deve espiare e ha questo involucro, immagine di una prigione (“desmoterìou eikòna”) affinché si salvi (“ìna sòzetai”).
Ed è sorprendente ritrovare il verbo “exire” in un contesto diverso, ad esempio nella lettera 54 dove Seneca racconta che la salute malferma gli aveva concesso una lunga tregua: «longum commeatum dederat mala valetudo», ma improvvisamente (“repente”), la malattia lo aveva assalito di nuovo. I forti attacchi d’asma, se si fossero intensificati, lo avrebbero portato alla morte; in tal caso il saggio stoico verrebbe certo cacciato dalla vita, egli invece ne esce: «eicior quidem sed tamquam exeam», il saggio non viene mai cacciato («numquam eicitur sapiens»). “Cacciati” vuol dire esserlo contro la propria volontà, ma il saggio stoico non fa nulla “invitus”: egli “vuole” ciò che la necessità gli imporrà («vult quod coactura est», sc. “necessitas”). Si ricordi che «vir fortis ac sapiens non fugere debet e vita, sed exire». Le medesime considerazioni s’incontrano nei Pensieri di Marco Aurelio: «Esci una volta per tutte dalla vita, ma non adirato» (10, 😎. La porta di questa prigione è sempre aperta, cfr. Seneca “De providentia” 6, 7: «Ante omnia cavi – dice la provvidenza – ne quis vos teneret invitos; patet exitus […] nihil feci facilius quam mori». → (“Prima di tutto ho provveduto che nessuno vi trattenesse contro voglia; la porta è aperta: […] nulla ho reso più facile che morire”).
Un’immagine uguale ricorre in Epitteto 3, 8, 6: «a te che soffri questi malanni è lecito conservare la felicità: ti ha aperto la porta», dove la provvidenza è chiamata Zeus: se ti capita qualcosa che non ti piace, «esci e non accusare nessuno». Possiamo ora chiederci cosa sia la morte per Seneca. Essa va collocata fra le ingiurie che il saggio non teme, epist. 82, 14: «morti, exilio, malae valetudini, dolori bus qua eque alia aut minus aut magis pertimuimus aut malitia aut virtus dat boni vel mali nomen» («alla morte, all’esilio, alla malattia, ai dolori e a tutto quello che temiamo in misura maggiore o minore, la malvagità o la virtù dà l’etichetta di bene o di male»). La morte, insomma, come volevano gli stoici, non è altro che uno fra gli “adiàfora”, le cose indifferenti. Cfr. epist. 82, 14: «mors honesta est per illud quod honestum est, id est virtus et animus externa contemnens» →(«la morte è resa onorevole da quella realtà che è onesta, cioè la virtù e un animo che sa disprezzare i beni estranei all’uomo»).
Così anche la morte va disprezzata, cfr. Seneca “De providentia” 6, 6: «Contemnite mortem: quae vos aut finis aut transfert» (“Non curatevi della morte: che è o una fine o un passaggio”) come aveva detto Platone in Apologia 40 c: «il morire è una delle due cose, o è un nulla o è un mutamento e un passaggio dell’anima da questo mondo ad un altro luogo». Proseguendo con la lettera 82, che rappresenta la trattazione più lunga sulla morte, vi si legge:«Mors contemni debet magis quam solet» (16) → (“Si deve disprezzare la morte più di quanto si è soliti fare”); sulla morte si hanno tante convinzioni, l’ingegno di molti si è cimentato per accrescerne la triste fama, è stata dipinta alla stregua d’un carcere sotterraneo (“carcer infernus”), una regione oppressa da notte perpetua. E ancora in 82, 15: «illa quoque res morti nos alienat, quod haec iam novimus, illa ad quae transitori sumus nescimus qualia sint et horremus ignota» («altro motivo che ci rende ripugnante la morte è che ignoriamo di quale natura siano le realtà a cui stiamo per approdare e abbiamo paura dell’ignoto») [Di questo passo si ricorderà Shakespeare nel celeberrimo monologo di Amleto]. Così, è tanto pazzo chi teme una sofferenza che non avrà e non avvertirà!→ (epist. 30, 6): «Tam demens autem est qui timet quod non est passurus, quam qui timet quod non est sensurus» (“E’ pazzo chi teme una cosa che non soffrirà quanto chi teme qualcosa che non sentirà”), perché l’uomo con la morte muterà solo residenza…
Il crollo delll’eutanasia
A partire dal IV secolo d.C., con l’ascesa del cristianesimo a religione di stato dell’impero romano, ebbe inizio il progressivo declino della filosofia come “paideia” dominante e stile di vita delle élites intellettuali romane, finché nel 529 l’imperatore Giustiniano decretò la chiusura dell’Accademia di Atene, fondata da Platone nel IV secolo a.C.; i filosofi che consideravano il cristianesimo la teologia dei barbari furono costretti a fuggire e a stabilirsi, dopo un lungo peregrinare, in una zona di confine fra l’impero bizantino e quello persiano.
Alla filosofia come “paideia” subentrò, imposta dall’autorità imperiale, la dogmatica cristiana che, come s’è visto, alla metafisica aristotelica e neoplatonica aveva fatto ricorso per conferire una fondazione razionale plausibile per il mondo cristiano, ai misteri pagani per la propria confessione di fede e al disinganno escatologico seguito al mancato, imminente evento del ritorno di Cristo e del regno dei cieli predicato come prossimo da Joshua di Nazareth e dai suoi apostoli. Con l’eclissi della filosofia scomparve anche la nozione di eutanasia e al concetto di morte volontaria subentrò quello di suicidio come crimine e peccato mortale; una distanza abissale, quindi, dalle posizioni stoiche e senecane.
Soltanto con la riscoperta dell’antichità, promossa dall’Umanesimo e dal Rinascimento, e con la rivoluzione scientifica e tecnologica del XVII secolo che favorirono e resero possibile l’emancipazione dell’arte e della filosofia dalla fede e dalla dogmatica, poeti e pensatori trovarono il coraggio di ripensare liberamente e criticamente temi e problemi che avrebbero provocato nei secoli precedenti l’intervento della censura ecclesiastica, l’inevitabile persecuzione e, in qualche caso, la condanna a morte. L’alleanza di trono e altare degli stati assoluti, lo strapotere dei ministri del culto, costrinsero molti filosofi ad adottare un linguaggio concettuale particolare, un’arte dello “scrivere fra le righe” che tiene celato ai più quanto intendono comunicare a quei pochi che sono in condizione di comprenderlo: la verità intorno al senso della presenza umana nel mondo, della vita e della morte.
Ma il tema della morte volontaria rimase a lungo un autentico “tabù”, se è vero, come è vero, che David Hume, dopo aver celebrato in un suo scritto le libertà inglesi e in particolare la libertà di stampa, non ebbe il coraggio di pubblicare il “Saggio sul suicidio”, in cui la morte volontaria viene presentata come una delle forme più elevate della libertà di cui la provvidenza divina ha fatto dono all’uomo. Nella nota finale a questo testo, il filosofo scozzese ricorda come nelle Scritture non si riscontri nessuna esplicita condanna del suicidio. Nel XIX secolo, quando il processo di scristianizzazione giunse infine ad affermarsi decisamente nella cultura europea, Friedrich Nietzsche, in una celebre pagina del suo poema anticristiano “Così parlò Zarathustra”, poté celebrare la vera libertà in chi è «libero per la morte e nella morte, un santo che dice no quando non è più tempo di dire sì».
Negli stessi anni, Giosué Carducci scriveva: «Oh eutanasia, invocata dai greci, anch’io ti invoco e ti adoro; e ti supplico che tu mi spenga lievemente e lievemente mi addormenti fra le braccia di lei», in cui si avverte una eco del leopardiano «null’altro in alcun tempo / sperar, se non te sola; / solo aspettar sereno / quel di ch’io pieghi addormentato il volto / nel tuo virgineo seno» (“Amore e morte”, vv. 120-124). Questa difesa dell’eutanasia incorrerà certamente nell’accusa di nichilismo; in realtà, il nichilismo, nelle sue verità essenziali, altro non è che il rovesciamento radicale nel suo opposto della triade metafisica Essere – Vita eterna – Pensiero che pensa sé stesso, che, come già segnalato, è stata presa a prestito dalla teologia dei Padri per conferire una “griffe” razionale al mistero trinitario.
Le verità essenziali del nichilismo, quali si possono ricavare da un’attenta lettura, per esempio, delle “Operette morali” e dello “Zibaldone” leopardiani oppure di “Essere e tempo” di Martin Heidegger, sono univocamente riconducibili alla triade nulla – morte – silenzio . Il nichilismo, «questo ospite ingrato» (F. Nietzsche), con cui la filosofia non ha ancora fatto i conti, non è quindi un vezzo ad uso di intellettuali salottieri che passano il loro tempo a “épater les bourgeois”, con battute e lazzi vagamente blasfemi. Il nichilismo è l’espressione più evidente della crisi radicale in cui è incorsa la cultura europea negli ultimi due secoli e il primo ventennio del XXI: nel XIX, con il tramonto definitivo della metafisica seguito alla sua apoteosi nel sistema hegeliano, dove Dio come idea assoluta è ancora definito come Essere, Vita che non conosce tramonto, Verità che sa sé stessa; per l’altro verso, col processo di scristianizzazione che ha caratterizzato l’opera della quasi totalità delle élites intellettuali occidentali.
In realtà, come ci hanno insegnato per esempio Kant e Leopardi, l’autentico problema del nichilismo non è tanto la questione della negatività come nulla, ma il problema della negatività come “male radicale”, cioè male che affonda le proprie radici nella stessa volontà e razionalità umana, problema cui né la metafisica né la dogmatica cristiana nell’arco di duemila anni sono stati in grado di fornire una risposta risolutiva. Nel XX secolo il male ha celebrato il proprio trionfo, e oggi non siamo in condizioni di trovare un senso alle terribili sofferenze e morti ingiustificate in cui s’è manifestato (e persiste a manifestarsi), complici quelle ideologie e utopie totalitarie che pretendevano (e continuano pervicacemente a farlo) di instaurare su questa terra il regno dei cieli.
L’eutanasia non ha quindi nulla a che spartire con il nichilismo europeo; è piuttosto espressione della libertà umana: l’“ars bene moriendi” che gli antichi insegnavano, ha purtroppo, ha fatto la sua scomparsa con l’avvento del cristianesimo. Perciò nessuna religione, nessuna fede può e deve arrogarsi il diritto di sottrarre all’uomo, a ogni singolo uomo, la libertà di scegliere per sé la propria morte, e anche di darsela quando le circostanze lo suggeriscano e la ragione lo consigli. La morte volontaria non è un delitto, un crimine o un peccato: è l’espressione più elevata della libertà, il sigillo che l’unico, vero sovrano del proprio destino mortale è ogni uomo nell’unicità e irripetibilità della propria vita e della propria morte, sigillo non del nichilismo, ma del liberalismo filosofico
Prof. Gardenio Granata
13 Novembre 2021
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