Gardenio Granata, Il Novecento sul problema del male
«Quando un uomo buono viene ferito,
chiunque si dica buono deve soffrire con lui”
[Euripide]
Nel Novecento la filosofia ha dovuto ripensare il suo strumentario, prendendo le mosse, come avrebbe detto Nietzsche, non già dallo stupore ma dall’orrore.
Le concezioni della storia fondate su un’idea di progresso entravano in crisi, mentre riguadagnava consenso quanto Schopenhauer scriveva all’indomani della stagione illuministica e cioè essere l’ottimismo “un’opinione non soltanto assurda ma veramente empia”. In un mondo nel quale la sofferenza che gli uomini infliggono agli altri uomini trascende ogni possibilità di comprensione, il male torna a porsi come il punto critico di ogni pensiero filosofico. Le strategie tradizionalmente adottate per neutralizzarlo, la sua riduzione alla contingenza del peccato, la sua derealizzazione nella dottrina della “privatio boni”, la sua funzionalizzazione a strumento deputato a realizzare il bene, finiscono per essere accantonate come manovre antiquate di aggiramento del problema.
Anche la teologia ha dovuto confrontarsi con questa eruzione del male. Dopo Auschwitz il pensiero religioso è stato chiamato a fare i conti con una negatività senza riscatto. La reazione intellettuale suscitata dal terremoto di Lisbona del 1755 era stata l’ultima significativa protesta contro l’ingiustizia divina (si pensi alla polemica di Voltaire nel suo “Poeme sur le desastre de Lisbonne” verso l’ottimismo leibniziano sintetizzato nella formula del “migliore dei mondi possibili”). Ma dopo la Shoah il lamento di Giobbe sull’incongruenza tra l’innocenza del giusto e la punizione di Dio è tornato con forza sulla bocca del popolo ebraico. Esso risuona nella domanda che si è levata da ogni fossa dello sterminio e che uno scrittore (Z. Kolitz, “Yossl Rakover si rivolge a Dio”, Milano, 1997) ha affidato alla voce di un soccombente del ghetto di Varsavia: «Esiste al mondo una colpa che meriti un castigo come quello che ci è stato inflitto?».
All’indomani della seconda guerra mondiale tutte le comunità di credenti sono state turbate dallo scandalo per il “silenzio di Dio”. Si è parlato, con Bultmann, di un Dio totalmente Altro, Sconosciuto e Incomprensibile; di fronte al genocidio del popolo eletto si è ipotizzata l’impotenza di Dio; e si è riproposta l’idea di un Dio che è origine del male, nel senso che in lui è presente non la realtà ma la possibilità del male. Appunto per questo sempre più diffusa è la tendenza ad abbandonarsi al pessimismo.
È come se l’uomo, tradito nelle sue speranze, disilluso nelle sue attese, avesse perduto ogni fiducia e dovunque vedesse allungarsi l’ombra sinistra del nulla. In questo contesto, che tradisce in modo evidente la mancanza di una meta, di un obiettivo e una profonda sterilità assiologia, il problema del male si ripropone in tutta la sua sconvolgente paradossalità. Ci si affretta a risolverlo, come per esorcizzarne la presenza, per ridimensionare l’effetto dirompente che ha nei confronti delle pretese di una ragione che di tutto vuole rendere conto. Ci si rivolge al male quasi sia un incidente alogico che, in quanto non riconducibile entro le categorie proprie della ragione calcolante, occorre mettere tra parentesi, rimuovere per porre in primo piano la comprensione scientifica della realtà.
Benché dunque sia presente nella riflessione contemporanea, sembra che la conoscenza dispensi dal considerarlo un problema effettivo, inducendoci a confinarlo nella sfera intimistica del privato, di ciò che è speculativamente insignificante. E proprio in quanto pare non richieda un’elaborata discussione a livello speculativo, è divenuto oggetto di racconto, di compassione, di confessione. La psicologia del profondo, nelle forme della pratica psicoterapeutica- psicanalitica, ha, in un certo senso, contribuito ad incardinare il dolore e la sofferenza in un rapporto del singolo con una sorta di confessione laica di fronte all’analista. Il potenziale eversivo-invasivo del “male di vivere” è sparito dal proscenio ontologico per allocarsi nelle pieghe nascoste di una privata inadeguatezza alla vita.
Il senso cruciale della propria depauperata esistenza ha finito con l’assumere lo statuto di una solitudine devastante del singolo incapace di relazionarsi alla vita reale e collettiva. L’aspirazione tutta umana verso un mondo “giusto” è stata restituita ad un inconscio torbido, quasi si trattasse di una monade senza finestre sul mondo. Siamo davanti ad una “privatizzazione del male”, alla ricerca di una ferita personale che ha come esito quello di disinnescare l’esplosività del male, sfrattandolo dal terreno più vasto e incontrollabile di una condizione esistenziale comune, per calarlo all’interno di una terapia psico-individuale meno esposta alla visibilità scandalosamente ineludibile del dolore provocato da una sofferenza “inutile”…
Prof. Gardenio Granata
27 Aprile 2023
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