Gli acquedotti romani – Struttura e Funzionamento
Gli acquedotti romani raccoglievano l’acqua da diverse sorgenti naturali situate a notevole distanza dalla città (la più lontana era quella dell’Anio Novus, 59 miglia o 87 km ad est di Roma).
L’aqua veniva scelta in conseguenza di molti fattori: la sua purezza, il suo sapore, la sua temperatura, le sue supposte proprietà medicamentose, attribuite ai sali minerali contenuti, e la posizione delle sue sorgenti, che dovevano essere visibilmente pure e limpide, inaccessibili all’inquinamento e prive di muschio e di canne. Si dovevano esaminare le condizioni generali delle bestie che ne consumavano. Se la fonte era nuova, i campioni dovevano essere analizzati in contenitori di bronzo di buona qualità per accertare la capacità di corrosione, l’effervescenza, la viscosità, i corpi estranei e il punto di ebollizione.
L’acqua si muoveva in direzione della città grazie a nessun’altra forza se non quella di gravità, cioè l’acquedotto agiva da continuo scivolo per tutta la distanza che separava le sorgenti dal punto del suo sbocco. Per ottenere tale risultato ciascuno di essi veniva progettato in modo tale che ogni singola parte del lungo tracciato corresse leggermente più in basso di quello precedente, e leggermente più in alto di quello successivo, in modo da ottenere una pendenza media calcolata attorno al 2%. Per tale ragione l’acqua doveva essere presa da sorgenti situate in collina, più in alto rispetto alla posizione di Roma, in particolare nei dintorni ad est della città, ed ogni punto del lungo percorso doveva essere attentamente pianificato, a seconda delle caratteristiche del terreno che incontrava.
Gli architetti romani erano abili in questa attività, per la quale disponevano di arnesi sofisticati: a parte la comune livella ad acqua (libra), simile a quella usata oggi dai falegnami, utilizzavano strumenti come il Chorobates, e il Dioptra. Prima di essere incanalata, l’acqua passava attraverso una o più vasche dette piscinae limariae, dove la velocità di flusso rallentava, consentendo al fango e alle altre particelle di depositarsi. Simili vasche si trovavano anche lungo il corso di molti acquedotti, per rimuovere qualsiasi impurità.
Lontano dall’area urbana gran parte del percorso degli acquedotti era sotterraneo: scavando pozzi verticali veniva raggiunta l’altezza richiesta per mantenere un percorso in discesa, e quindi il canale, o Specus, veniva scavato attraverso la roccia.
Per via delle caratteristiche del terreno, alcune parti del dotto dovevano correre in superficie, lungo un fosso le cui pareti erano rinforzate con una palizzata. Lungo il percorso esterno dell’acquedotto ogni 240 piedi (71,28 m) una grossa pietra, detta Cippo, segnalava la presenza del canale sotterraneo, e per evitare danni e inquinamento doveva essere rispettata una distanza di sicurezza di 15 piedi (1 piede romano = 29,7 cm) per ogni lato della struttura fuori città e di 5 piedi nel caso si trattasse di struttura sotterranea o di struttura all’interno della città.
Infatti tutti gli acquedotti erano pubblici, di proprietà del governo a beneficio dei cittadini, nonostante lo ius non prevedesse l’esproprio (si pensa che il forzato suicidio di Torquato nel 64 d.C. ed il sequestro delle sue tenute sia da addebitare alla costruzione degli Arcus Neroniani). Il loro danneggiamento o inquinamento veniva severamente punito, così come anche usare l’acqua per ville o terreni privati collegandosi illegalmente alle condutture pubbliche.
Rami privati in effetti esistevano, ma potevano utilizzare solo il surplus dell’acqua disponibile, e per fare ciò si pagava un tributo. Quando il dotto raggiungeva una parete scoscesa o una gola, una possibile soluzione era di costruire un ponte, o viadotto, per attraversare il salto e raggiungere il lato opposto ad un’altezza leggermente inferiore: qui il percorso del canale ritornava sotterraneo.
Un’altro modo di superare tali formazioni naturali era di attraversarle con il “sifone invertito”, una tecnica basata su un semplice principio fisico.
Dove il terreno si faceva piano, in vicinanza della città, il flusso veniva reso possibile costruendo le famose serie di arcate, alcune delle quali raggiungevano quasi 30 m di altezza.
Attraversavano la campagna per delle miglia, mantenendo il livello dell’acqua sufficientemente alto da poter raggiungere l’area urbana. Infatti era lungo queste grandiose strutture che la maggior parte degli acquedotti entrava a Roma. Più l’acqua viaggiava alta, più grande era il numero di quartieri che avrebbe potuto raggiungere.
Nella parte sommitale di questi viadotti, dove scorreva il canale, si trovavano delle aperture che consentivano la stessa opera di manutenzione richiesta dai dotti sotterranei.
Dovendo sfruttare quanto più possibile l’altezza naturale del territorio attraversato, diversi acquedotti arrivavano a Roma seguendo un percorso quasi identico; quindi due o persino tre “acque” potevano condividere lo stesso viadotto, scorrendo in canali separati a livelli differenti, secondo la rispettiva altezza che ciascuna di esse aveva sin lì raggiunto.
I principali sbocchi cittadini erano situati nei punti urbani più elevati. In particolare, molti acquedotti raggiungevano i confini di Roma da sud-est, in un sito chiamato Spes Vetus (“speranza vecchia”) da un antico Tempio della Speranza che una volta vi sorgeva. L’acqua quindi entrava in città dal vicino colle Esquilino, da dove poteva essere distribuita a gran parte degli altri quartieri.
In alcuni casi acquedotti più “ricchi” ne aiutavano altri a mantenere un volume d’acqua sufficiente al rifornimento delle rispettive aree: per esempio, l’Aqua Claudia versava circa 1/8 della sua portata nelle A. Iulia e A. Tepula.
Non tutti gli acquedotti entravano a Roma passando su un viadotto: quello più antico, l’Aqua Appia, correva quasi completamente in sotterranea, così come pure quelli provenienti da nord-ovest, Aqua Alsietina e Aqua Traiana, che rifornivano l’VIII Regio, Trans Tiberim (cioè Trastevere) dalla cima del colle Gianicolo.
In tali casi, entro l’area urbana venivano usati i lapides perterebrati: mattoni cavi speciali che si incastravano l’uno nell’altro formando un condotto impermeabile.
Il principale sbocco di un acquedotto aveva l’aspetto del Castellum (“castello”), una struttura di dimensioni variabili che conteneva una o più vasche simili alle piscinae limariae, dove il flusso idrico rallentava e le ultime impurità sedimentavano. L’acqua veniva quindi versata all’esterno da un certo numero di bocchettoni a forma di calice.
Breve Biografia del Prof. Arch. Renata Bizzotto
Docente di “Rilievo dell’Architettura” presso la facoltà di Ingegneria, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Consigliere Nazionale del CNAPPC dal 1997 e presidente del Dipartimento “Formazione e Ricerca scientifica”. Presidente dell’Ordine degli Architetti di Roma dal 1994 al 1997. Presidente del Consiglio d’Amministrazione dell’Acquario Romano s.r.l.
Saggi:
– Disegno e Progettazione – in collaborazione – Dedalo libri ed. Bari 1967
– Lo studio professionale di progettazione – in collaborazione – NIS ed. Roma 1984
– Vani e infissi – Edizioni Kappa. Roma 2000
– Le Porte di Roma: San Sebastiano, San Paolo, Tiburtina – Edizioni Kappa. Roma 2001
– L’Ospedale di S.Spirito – Edizioni Kappa. Roma 2001
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