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Il ‘Pampapato’ ferrarese

“La città, grande come Tours, è in perfetta pianura; numerosi i palazzi, larghe e diritte la maggior parte delle vie, scarsa la popolazione… Qui servono la frutta sui piatti. Le strade sono tutte pavimentate di mattoni…”

Michel Eyquem de Montaigne, Viaggio in Italia

Questo è il ritratto che, in pochi ed essenziali enunciati, Michel de Montaigne traccia di Ferrara, città di passaggio nel corso del viaggio in Italia che il letterato e filosofo francese intraprese negli anni Ottanta del Cinquecento.

Giungendo da Rovigo per via fluviale, fece tappa a Ferrara, ove ebbe modo di trattenersi per una breve visita. Il giorno seguente l’arrivo, fu ricevuto a Corte dal duca Alfonso II d’Este, col quale intavolò una lunga e amabile conversazione, poi visitò la tomba del sommo poeta Ludovico Ariosto, all’epoca ubicata nella chiesa di San Benedetto, e altresì chiese, giardini e abitazioni private.

Per finire ammirò il famoso Bucintoro, splendida nave ducale realizzata a guisa di quella della Serenissima, e l’arsenale del Duca. Seppure poco popolosa, la Ferrara rinascimentale doveva apparire ai viaggiatori stranieri dell’ultimo ventennio del secolo XVI una città da osservare con una sorta di riverente ammirazione, commista a meraviglia, sia per il suo assetto architettonico ed urbanistico, indiscutibilmente all’avanguardia, sia per le sue raffinate usanze, se la percezione immediata di chi per la prima volta ne veniva in contatto sortiva simili riflessioni.

È la Ferrara del Cinquecento, dell’arte, dell’architettura, della letteratura di quella grande espressione culturale che fu il Rinascimento, che, solitamente, l’immaginario storico locale rievoca come momento celebrativo di un’epoca che fu di singolare splendore. In questo breve percorso che s’intende intraprendere, nel folclore, nelle usanze, e più propriamente nell’arte gastronomica ad ampio spettro, si sfioreranno alcuni ricordi di questa luminosa stagione, ma non solo.

Si rasenteranno anche altri tempi, anteriori e seguenti, cercando di cogliere e mostrare, in relazione all’argomento trattato, le immagini più creative e ricche di significato di contesti storici non parimenti contraddistinti, talvolta a torto, da una così eccelsa fama.

Il Pampapato ferrarese in clausura

È il pampapato il dolce più rinomato e amato della tradizione gastronomica ferrarese. Da secoli impera incontrastato sulle tavole delle contrade, della città e dei suoi borghi ma è altresì apprezzato in altre e diverse realtà culturali, al di fuori dei confini regionali e nazionali.

L’etimologia del termine, indagato nei dizionari dialettali ottocenteschi, alla voce pampapat, che rimandano alla lemma italiano pampepato e pan pepato, è effettivamente fuorviante. Se si consulta il Grande Dizionario italiano dell’uso al vocabolo panpepato, di rinvio da pampepato, la definizione che viene data è “dolce a forma di ciambella o focaccia aromatizzato con spezie, miele, scorze d’arancio e di cedro candite, con aggiunta, a seconda delle regioni, di pepe, frutta secca e cacao”.

Nel caso del pampapato ferrarese, così come la sua formula si è fissata nell’uso, la discriminante è dettata dall’assenza di pepe e dalla presenza del cacao, anche se la ricetta originaria, risalente all’epoca Estense, doveva prevedere il pepe, comunemente utilizzato insieme ad altre spezie e, ovviamente, l’assenza del cacao. Alfredo Panzini, nel Dizionario Moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, è ancora più preciso ed esaustivo nel qualificare il panpepato: “Nome antico di dolce, fatto di miele (poi di zucchero), canditi, spezie, pepe, e mandorle, reso forte con mescolanza di farina: onde il nome moderno di panforte, in forma di rotelle”, poi, inoltrandosi nella ricostruzione storica della specialità dolciaria in questione, afferma, fugando così ogni dubbio sulle possibili affinità col dolce ferrarese, “specialità di Siena. Nelle nozze del Maresciallo Trivulzio con Berenice d’Avalos furono serviti alla quattordicesima portata panpepati senesi.”

È evidente, non soltanto, che non si tratta dello stesso dolce, ma altresì che le varianti linguistiche, in stretta correlazione con l’evoluzione che la composizione del dolce ebbe nel corso dei secoli, hanno contribuito a creare confusione nell’attribuzione e nell’identificazione del prodotto. Spesso anche denominato pampepato o panpepato, ma di fatto, la ricetta attuale, col pepe non ha nulla a che spartire, il pampapato ferrarese è passato alla storia come una creazione seicentesca che nasce nel periodo in cui Ferrara era tornata ad essere dominio della Santa Sede. La tradizione vuole che artefici di questa così squisita specialità dolciaria siano state le monache Clarisse, dell’Ordine francescano, del Monastero del Corpus Domini, ubicato tra via Pergolato e via Campofranco nell’antico quartiere di San Romano, che pur nella clausura vivevano con intensa operosità la vita comunitaria del convento.

Difatti le religiose, consacrate a Dio, alla preghiera e alla vita contemplativa, erano particolarmente stimate per la sapienza con cui si destreggiavano nell’arte della cucina, in particolare nella preparazione di dolci prelibatezze quali confetture di frutta, ciambelline di marzapane, susamelli, mostaccioli, offelle, mandorlini, e i prestigiosi pampapati che, non unicamente per l’eco di consensi raggiunta, oltrepassavano le mura del convento.

Amalgamando con perizia gli ingredienti: zucchero, farina, miele, mandorle, pinoli, frutta candita, droghe di vario genere, il cui impiego risale al Medioevo, – come la cannella, i chiodi di garofano, a conferire al dolce un aromatico profumo e un’esaltazione del gusto dalle connotazioni tipicamente amarognole – ed infine il cacao, rivelazione fra i prodotti gastronomici d’importazione dal Nuovo Mondo, le monache avrebbero così creato una vera delizia del sapore.

La caratteristica forma a zucchetto, a rievocare il copricapo dei prelati, quale omaggio al clero, per il quale si racconta che venisse preparato, e che in virtù di questa consuetudine abbia assunto inoltre il nome di Pan del Papa. Certamente un dolce particolarmente dovizioso d’ingredienti sfiziosi e speziati ma pressoché privo di grassi: fattore non trascurabile che lo rendeva particolarmente adatto ad essere consumato anche nei giorni di vigilia, in cui era d’obbligo mangiare di magro.

A maggior ragione se si tiene conto della sua circolazione nei conventi, nei monasteri e quindi ad una destinazione rivolta alle comunità religiose sulle quali incombeva la Regola. L’uso delle spezie più varie che arricchiscono il dolce, avvalorano l’idea della sua origine conventuale, se non altro per gli alti costi che facevano sì che l’utilizzo di certi ingredienti, come le spezie, fosse appannaggio solo di un certo strato sociale. Per quanto concerne il Convento del Corpus Domini, sono ben note, dai documenti d’archivio, le numerose elargizioni concesse dai principi d’Este, anche sotto forma di prodotti alimentari, alle monache. Fra questi le preziose spezie.

D’altronde non bisogna dimenticare che il Corpus Domini godette sempre di un trattamento del tutto privilegiato da parte degli Estensi, soprattutto in virtù degli stretti rapporti creatisi con la frequentazione del monastero di alcune principesse di Casa d’Este, alle quali era altresì consentito di usufruire di un appartamento loro riservato presso l’attigua Casa Romei, dopo che nell’anno 1483, con lascito testamentario del ricco mercante Giovanni Romei, era venuta in eredità alle suore che in tal modo si ritrovarono proprietarie dell’intero isolato.

Di fatto s’instaurò un vero e proprio patronage della Corte. Inoltre non è da trascurare un fattore imprescindibile, e cioè che le giovani clarisse appartenevano al ceto aristocratico, pertanto l’educazione loro impartita, nell’ambito della famiglia d’origine se non a Palazzo, era di pregevole levatura intellettuale. Prerogativa che il monastero mantenne a lungo nel corso della sua storia, qui brevemente ricordata nei suoi iniziali e principali momenti.

Il Monastero del Corpus Domini, fondato nel 1406 da Bernardina Sedazzari insieme ad altre nobildonne, fra cui Lucia Mascheroni, sua erede, che, vivendo sotto la regola di Sant’Agostino e la guida spirituale del Parroco di San Salvatore, si erano congregate con l’intendimento di condurre una vita religiosa senza vincoli di clausura, cambierà ben presto la sua vocazione originaria abbracciando, con l’arrivo nella comunità delle nobili Taddea Pio e della figlia Luchina monache dell’Ordine di Santa Paola di Mantova, la Regola di Santa Chiara.

Ma la fama del Corpus Domini è legata alla figura mistica di Santa Caterina Vegri (1413-1463). Figlia del giureconsulto ferrarese Giovanni Vegri e di Benvenuta dei Mammolini bolognese, Caterina venne educata alla Corte degli Estensi come damina d’onore della principessa Margherita, figlia del marchese Niccolò III, ove visse in un entourage di elevato livello culturale ed artistico, prima che in lei si risvegliasse il fervore vocazionale e passasse a vita claustrale proprio nel monastero del Corpus Domini nell’anno 1427.

Donna di raffinata cultura, ritenuta santa ancora prima della morte, avvenuta nel 1463, non ancora cinquantenne, la sua immagine resterà strettamente connessa al monastero ferrarese, anche dopo la sua dipartita per Bologna nel 1456, ove per obbligo d’obbedienza vi si recherà per fondare un omonimo monastero di cui sarà badessa. Monumento della trattatistica ascetica del secolo XV, può essere ritenuta l’opera Le Sette Armi Spirituali che la Vegri scrisse mentre era ancora a Ferrara.

La Santa, nota per i suoi prodigi, è tuttora ricordata nel sostrato popolare ferrarese per il miracolo del pane. Si narra che Caterina, incaricata di sovrintendere all’ufficio di fornaia, dopo aver infornato il pane e averlo affidato al Signore, si recò in chiesa per assistere alla predica che durò quattro ore. Al suo rientro, lo sconcerto: trovò che il pane non era bruciato, come ella temeva, ma si era conservato perfettamente fragrante. Ancora oggi, durante la novena di Santa Caterina, nel mese di marzo, è possibile visitare il forno del miracolo.

Le monache Clarisse del Corpus Domini, che continueranno ad osservare l’insegnamento di Santa Caterina, sia nella preghiera che nel lavoro, rimarranno ben note ai ferraresi anche trascorsa la luminosa epoca Estense. Durante la susseguente dominazione pontificia, seppure maggiormente conservatrice nei confronti degli ordini religiosi, le laboriose claustrali si qualificheranno per le loro eccelse specialità di carattere culinario e si dedicheranno all’elaborazione di antiche e alla creazione di nuove ricette, per la preparazione di prelibatezze destinate alla Corte legatizia.

Da queste premesse nascerà il dolce per antonomasia dell’arte gastronomica ferrarese: il pampapato. Anche se, interpellate sull’argomento, le religiose del Corpus Domini preferiscono affidare l’attribuzione della creazione del dolce più alla leggenda che alla storia, sia perché all’interno del monastero non è rimasta alcuna testimonianza scritta riguardo all’eventuale ricetta o all’esecuzione di essa, sia perché effettivamente la sua consacrazione nel folclore locale ne ha avvalorato la memoria storica.

D’altronde il confine tra leggenda e storia è oltremodo labile.

[…]

Le ricette

Nelle case dei ferraresi, ancora oggi, nonostante l’ampia diffusione e commercializzazione del pampapato – che confezionato con estrema cura e arte, impreziosito da guarnizioni o contenuto nelle classiche scatole o semplicemente incartato, adorna le vetrine di ogni pasticceria, caffetteria, panetteria, ristorante di Ferrara e del suo centro storico – è tradizione nel mese di dicembre, in vista delle festività natalizie, industriarsi per la preparazione di quello che è ormai considerato, a buon diritto, il tipico dolce della cultura gastronomica locale.

Di questa specialità dolciaria antica di secoli, e tanto cara ai ferraresi, la ricetta originale è andata perduta. Ciò nonostante la composizione degli ingredienti di base è chiaramente nota, anche se ogni pasticciere conserva gelosamente la propria ricetta e nelle famiglie circolano esemplari di antiche ricette risalenti alla fine dell’Ottocento e al Novecento che ancora si tramandano.

Tutte, pur essendo simili, si differenziano per alcune particolarità, presentando delle varianti negli ingredienti o nelle fasi di lavorazione. Comunque sia la preparazione del pampapato è laboriosa
e richiede tempo ed abilità. La ricetta che segue è stata tratta da un manuale della cucina ufficiale, e nello specifico di pasticceria, in uso nelle Corti italiane.

Il Pampapato nelle case dei ferraresi

Questa ricetta, risalente alla fine dell’Ottocento, è il risultato della trasmissione orale di laboriose massaie ferraresi. Giunta sino ai giorni nostri, si è pensato di riproporla dandole una forma scritta se non altro per conferirle dignità storica. Gentilmente concessa dal professor Germano Cervellieri, appartiene alla sua famiglia da generazioni.

Farina 1 kg.
Zucchero 600 gr.
Cacao in polvere 300 gr.
Pinoli 200 gr.
Mandorle 200 gr.
Canditi (cedro, arancia, e qualche frutto di mostarda) 200 gr.
Cannella in polvere 25 gr.
Lievito (carbonato d’ammonio) quanto basta
Caffè quanto basta per impastare (una variante era rappresentata dall’utilizzo del vino per amalgamare il composto)
Cioccolato fondente per la copertura

Dapprima preparare gli ingredienti da amalgamare al composto: le mandorle tritate grosse, la frutta candita, di varie qualità, tagliata a cubetti, i pinoli lasciati interi, la cannella e mescolarli insieme. Predisporre la farina, a cratere, alla quale verranno aggiunti lo zucchero, il cacao in polvere, il lievito e il composto di spezie e canditi precedentemente preparato, poi impastare il tutto con il caffè la cui quantità sarà determinata dalla necessità. Ottenuta una pasta omogenea, suddividerla in più parti e modellarle fino a conferire la classica forma a zucchetto. Cuocere in forno. Una volta raffreddati i pampapati, andranno ricoperti con cioccolato fondente sciolto a bagnomaria. Esiste un’altra versione che prevede prima della cottura di cospargere la superficie con i diavulìn.

[estratto di 16 pagg. del testo di Mirna Bonazza, “Il Pampapato ferrarese. Leggende e storia di un dolce peccato di gola.“, pagg. 100, disponibile in esclusiva nelle libreria Sognalibro, via Saraceno, 43, Ferrara]

Indice del Libro 

Il Pampapato ferrarese in clausura
Fasti conviviali nel Rinascimento alla Corte ferrarese degli Estensi
L’epoca Pontifica
La riscoperta dell’antica ricetta del Pampapato
Il “Cibo degli Dei”
“La Cioccolata” di Girolamo Baruffaldi
Le ricette 

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