L’incomunicabilità tra gli intellettuali e il potere nella Roma antica
Considerando l’incomunicabilità come impossibilità di comunicare, di stabilire un rapporto, uno scambio di dati o di esperienze, è facile capire come si possa parlare di incomunicabilità tra intellettuali e potere in un’epoca in cui dilagava il dispotismo.
Verso la fine del principato di Augusto, che in un primo momento aveva concesso protezione alle lettere senza soffocare la libertà di espressione, si assiste ad un’assunzione di atteggiamenti più rigidi e intolleranti verso gli intellettuali. Questo non tanto per insofferenza senile o libidine di dispotismo dell’imperatore, quanto per la natura stessa del potere imperiale che non poteva ammettere né critiche che ne diminuissero la maestà, né l’aperta professione di ideologie contrastanti con il fondamento dell’impero. La figura di Ovidio costituisce un caso emblematico di questo mutato atteggiamento verso la poesia alta, di impegno civile, e quindi “scomoda”, a favore della poesia leggera. Inoltre la scomparsa di Mecenate ed il conseguente venir meno della sua accurata opera di mediazione fra potere politico e intellettuali, porta ad un distacco tra le due “sponde”.
I successori di Augusto, Tiberio, Caligola e Claudio, per quanto amanti delle lettere, avendo una cultura che si riduceva prevalentemente al “gusto per l’erudizione”, anziché lasciare liberi gli intellettuali li sopprimono intervenendo con condanne, roghi ed esili ogni qualvolta ritengono che le loro opere siano una minaccia per la stabilità del regime. Viene soffocata così la vita culturale e si apre la strada per la rottura dell’equilibrio cultura-potere.
A questo clima di limitazione gli intellettuali o tentano di assumere un atteggiamento di anticonformismo più o meno esplicito esaltando il passato, o si “rifugiano” nella scienza e nella filosofia, isolandosi dalla società, o ancora si adattano al conformismo e all’adulazione del regime.
Quello dell’età Giulio-Claudia è un periodo che vede fiorire soprattutto generi minori (poesia mitologica, poesia astronomica…), in accordo con il gusto dei vari imperatori, dove solo Fedro, con le sue favole cariche di allusioni, si scaglia contro il trionfo della prepotenza, della corruzione, della delazione, dell’ipocrisia.
Dopo il periodo di stasi e mediocrità che le lettere attraversano dagli ultimi anni di Augusto fino all’impero di Claudio, si ha, sotto Nerone, una nuova fioritura e – grazie ad intellettuali come Seneca, Lucano, Persio e Petronio che si distaccano completamente dalle produzioni dell’età augustea – si inaugurano nuovi caratteri.
Le ragioni di questa rinascita si potrebbero rintracciare sia nell’iniziale libertà lasciata da Nerone agli intellettuali, atta a tentare di ricostruire un dialogo tra cultura e potere, sia alla guida di Seneca, che tenta di dare alla monarchia imperiale un’impronta illuminata e liberale.
Sarà proprio Seneca che per primo tenterà di risanare il difficile equilibrio tra cultura e potere, forte anche del suo status di protetto dell’imperatore .
Prima di analizzare il rapporto che Seneca ha con il potere, bisogna però fare un’introduzione sull’epoca della quale questi fa parte.
Ci troviamo sotto il principato neroniano, un’ epoca molto difficile, piena di tensioni e dominata dalla paura, anche se tutto ciò non avviene da subito. Appena salito al potere, infatti, Nerone, anche grazie al saldo appoggio di uomini come Seneca e Afranio Burro, riesce a mantenere un equilibrio all’interno dell’impero romano, governando saggiamente su modello augusteo (clementia, nobilitas).
A questo periodo di prosperità, che viene chiamato dagli storici “quinquennium felix” proprio perché sono cinque anni di pace e serenità, purtroppo ne segue un altro più difficile: il periodo dominato dalla paura e dalla follia di Nerone, nel quale si manifestano quelle nefande tendenze che culminano con l’uccisione della madre e di Britannico, l’accompagnamento con la perversa Poppea e il famigerato Tigellino e l’allontanamento di tutti quelli che lo hanno portato al potere.
Seneca, turbato da tutto questo, decide di ritirarsi dalla vita politica e dedicarsi ai suoi scritti fino al 65, anno nel quale viene implicato nella congiura dei Pisoni e costretto da Nerone a uccidersi.
Insieme a Seneca moriranno altre figure rilevanti, come ad esempio Lucano. Seneca non ha rinunciato ad esporsi in prima persona e non si è tirato indietro di fronte ai compromessi che la partecipazione alla vita politica gli ha imposto, ma più volte ha pagato il prezzo della fama e della ricchezza, fino ad essere costretto al suicidio. Dopo aver rischiato la vita sotto Caligola, viene costretto da Claudio all’esilio in Corsica; per ottenerne il perdono lo ha adulato nella Consolatio ad Polybium, ma dopo la morte lo ha sbeffeggiato ferocemente nell’Apocolocyntosis. Diventato precettore di Nerone, ha cercato di improntare il suo governo ai principi del rex iustus, teorizzando la figura del principe illuminato nel De clementia. Ben presto, però, l’indole autoritaria e spietata del giovane imperatore ha preso il sopravvento.
Seneca, a differenza di altri scrittori a lui contemporanei, sente il dovere di partecipare per buona parte della vita all’attività politica: per lui è molto importante il rapporto tra vita attiva e vita contemplativa, vita pubblica e vita privata, individuo e società.
Resta in ogni caso saldo ad un principio: compito dell’uomo è di essere utile agli altri uomini. Per essere utile, Seneca afferma che l’uomo virtuoso non deve sottrarsi alle sue responsabilità umane e civili; la morale di Seneca è una morale attiva, fondata sul principio del bene comune.
Il rapporto di Seneca con il principato fu, quindi, un rapporto travagliato. Inizialmente contento del principato neroniano scriverà un’opera al novello imperatore, intitolata De Clementia.
In quest’opera Seneca elogia la moderazione e la clemenza del princeps, dando anche un modello di comportamento che questo dovrebbe seguire.
Il sovrano clemente, dice l’autore, dovrebbe comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Il metodo migliore per educare i sudditi è sempre quello della persuasione e dell’ammonizione, mai quello della minaccia e del terrore.
Seneca non mette in discussione il potere assoluto dell’imperatore, ed anzi lo legittima come un potere di origine divina. A Nerone il destino ha assegnato il compito di governare sui suoi sudditi, ed egli deve svolgere questo compito senza far sentire su di loro il peso del potere, e deve anche essere garante della ratio universale.
Egli propone una sola norma nel trattare con gli schiavi: “Vivi con l’inferiore come vorresti che il tuo superiore vivesse con te”. Il re è il capo dello stato, i sudditi sono le membra, perciò questi sono pronti ad ubbidire al re come le membra ubbidiscono al capo e sono disposti ad affrontare anche la morte per lui: “Egli, infatti, è il vincolo grazie al quale sussiste unito lo Stato, egli è lo spirito vitale che tutte queste migliaia di uomini respirano. Essi, di per sé, non sarebbero null’altro che un peso e una preda per altri, se quell’anima dell’Impero venisse a mancare”.
Una volta accortosi del fallimento dell’educazione morale di Nerone, Seneca scrive il De Beneficiis, trattato di sette libri che affronta il tema del saper donare e ricevere un beneficio, e secondariamente il fatto che tutti gli uomini per natura e solo la fortuna può determinare la condizione di libertà o schiavitù. Ogni uomo deve sapersi costruire una propria gloria con la fatica e duri sforzi, senza contare su quella lasciatagli dai propri antenati.
Seneca è riuscito a mantenere nei secoli una notevole fama anche proprio per le sue ‘incoerenze’ nei confronti con il potere: i regimi totalitari e dispotici ne hanno apprezzato i comportamenti da suddito, mentre gli intellettuali si sono consolati con il suo modo di opporsi in qualche modo al potere.
Seneca ai nostri occhi, ci appare come un miscuglio di idealità e realismo: affascinato dalla morale stoica, l’ha piegata alle esigenze della vita pratica.
È con il suicidio che è riuscito a consegnare la propria immagine alla storia, riscattando una vita non certamente monolitica. Forse proprio questo gli ha dato la maggiore fama, e con questo ha scrittola migliore pagina della sua esistenza.
Seneca come moralista è tra quanti, nell’antichità,hanno individuato e parlato di quello che è uno dei limiti dell’uomo: il non riuscire ad esprimersi liberamente, anche nei confronti di persone con una carica più alta della propria.
Nelle tragedie Seneca è riuscito a mettere a tema un lato della sua personalità pressoché sconosciuto: quello del vir sapiens et bonus che si suicida per la giusta causa della libertà. La libertà, per Seneca, è dentro di noi e nessuno può comprimerla: nella sapienza, nel disprezzo del nostro corpo caduco è la libertà più sicura. Se sapremo rivolgerci a cose più grandi della schiavitù del corpo, conquisteremo la libertà interiore, diventeremo possesso di noi stessi. “Mi domandi quale sia la strada per andare verso la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo”.
Quello che veramente importa è soltanto saper distinguere il bene dal male perché chi riesce a tanto sarà davvero libero, perché la libertà non viene dal fatto che uno nasca in un determinato ceto, che sia esso povero o nobiliare. Per lo scrittore, la battaglia per la conquista della libertà si può combattere solo con l’arma della filosofia, tanto è vero che egli afferma che solo il saggio è libero.
Nella situazione di insanabile instabilità politica e sociale dell’impero romano dell’epoca, Seneca esprime tutte le ambiguità, i limiti e le velleità di un ceto intellettuale rimasto l’unico a far da diga al potere politico dispotico, dopo la sottomissione della classe senatoriale. Con Seneca fallisce la possibilità per il ceto intellettuale di svolgere una funzione organica al potere politico. Dopo di lui i ‘consiglieri del principe’ saranno liberti e cortigiani, e gli intellettuali potranno solo raccontare quanto avviene.
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