Gardenio Granata, Il modello e gli esiti: la sintassi del vedere nella Commedia dantesca
È indubbio che pittori e scultori, di fronte al testo del Poema, finiscano col trovarsi nella condizione di esegeti: il loro commento tende ad aderire, quanto è possibile, allo spazio immaginario della visione.
Le trasformazioni degli episodi nel figurativo, prima che negli artisti, sono già avvenute in Dante.
Con la consueta acutezza Leopardi aveva colto questa straordinaria operazione in Zibaldone 2523 (29 Giugno 1822):
“Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante, a parlar con proprietà, non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti”.
Quasi parallelo al viaggio-sogno dantesco è nato il desiderio di riproporre e ripercorrere il “disegno” del grande Fiorentino, tentando di dare corpo visivo e plastico ad una vicenda che, proprio nel suo realismo, parla della nostra umana fragilità a fronte di una progettualità del divino che non ammette deroghe, fondata com’è su di una superiore giustizia distributiva ignota al nostro mondo.
L’“itinerarium mentis in deum” prevede una marcata attenzione ad ogni moto interiore, alla spesso dolorosa obbligatorietà di una scelta, che, mentre conferisce vita ad immagini fortemente icastiche, non dimentica mai di lasciare alla intuizione e sensibilità del lettore il complesso e inquieto groviglio di emozioni che ad esse sottendono.
Riprodurre scene da parte degli artisti ha significato creare un’ineludibile simbiosi d’immagini e sentimenti, non sempre univocamente interpretabile. È noto come Dante nell’Epistola XIII a Cangrande, vestiti i panni del poeta-teologo, avverta che nella Commedia non “est simplex sensus”; ogni artista, degno di tal nome, non ha dunque potuto non misurarsi con una polisemicità, la cui resa estetica ed emozionale a un tempo, è divenuta scopo primario, comunque arduo.
Se è vero che per la poetica medievale il significato delle cose rappresentate in modo visivo (“per sensibilia et phantasmata”) esercita uno stimolo morale, un rapporto dialettico, un’intesa interiore con il lettore-spettatore, allora si può affermare che Paternesi ha individuato quanto Dante vada alla ricerca del miglior campo visivo. La sintassi del vedere equivale così nel Maestro alla costruzione di un visibile credibile capace di toccare le corde dell’interiorità. Indovinare la Commedia significa, forse, seguire da vicino la tecnica dantesca di anticipare, attraverso uno scenario volutamente prolettico, gli esiti drammatici o salvifici che il testo-quadro propone.
A tal proposito si vedano i due dipinti che Paternesi dedica al naufragio di Ulisse e dei suoi compagni (Inf. XXVI, 119-120), dove il nucleo dell’orazion picciola: “Fatti non foste a viver come bruti…” si rovescia immediatamente nell’esito tragico di quella “quête” equorea. Le parole apparentemente preumanistiche dell’eroe greco sono “exemplum” negativo di una “curiositas” tipica dei “sapientes mundi” inabili a riconoscere il senso del limite e la cui follia-dismisura sbalza gli eroi dell’epopea greca in quel mare già cromaticamente infero. L’avventura di una conoscenza estrema trova la sua conclusione in un epilogo ironicamente tragico: Paternesi, infatti, ha scelto subito quel precipitare in un mare che diviene sipario denunciante come la sete di sapere, non illuminata dal divino, sia destinata a ritrasformare in “bruti” chi troppo ha presunto da una “canoscenza” limitata al teatro del nostro mondo.
Oppure si guardi al polisemico e ambiguo verso di Francesca (Inf. V, 103): “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, che il Maestro proietta su di un letto dove Eros incontra Thanatos, nelle vesti di un killer spietato, che gli occhi della donna fotografano nell’orrore verso cui sta inesorabilmente scivolando un piacere proibito quanto irrinunciabile. Paternesi, ancora una volta, ci offre l’esito plastico di una scenografia tragica in cui la passione travolgente distilla tutta l’amarezza possibile in una fusione di corpi che presto tingeranno “il mondo di sanguigno”.
Il celebre verso dantesco perde in Paternesi la sua dotta patina letteraria a tutto vantaggio di un’immagine memorabile dove l’Amore vive la sua intensità breve, selvaggiamente annientata da quel pugnale levato sui sogni della carne.
Dante ha preso certamente non pochi spunti dalla visione diretta di dipinti e sculture per approdare ad una parola-cosa al cui interno l’emozione si confessa attraverso un’espressione inevitabilmente “rappresentativa”. Il viaggio inesprimibile e il timore della inadeguatezza della lingua a rendere plausibile l’ineffabile divengono metafora sistematica di un ambizioso progetto che una insuperata magia verbale ha reso possibile. Il miracolo della salvezza passa dunque attraverso un miracolo estetico.
Paternesi parte dalla parola, la fa cosa e l’esprime in segni pittorici dove una straordinaria sensibilità artistica si sposa all’idea di rappresentare le icone di un tessuto linguistico, in cui il figurativo si sostituisce alla musicalità delle rime semantiche, restituendoci, nel suo variegato cromatismo, gli esiti dell’impareggiabile “scriba Dei”. Con Paternesi sembra di entrare in una cattedrale affrescata dove la nudità dei corpi racconta l’impermeabilità del dolore e il silenzio di parole spente, dove tutto è stato detto e udito: il disegno impenetrabile di un’umanità il cui destino è già stato dipinto da altre mani onniscienti (Pd. XVIII, 109-110 “Quei che dipinge lì, non ha chi’l guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta…”) e pur impotenti a regalare all’uomo una vera pace interiore.
Prof. Gardenio Granata
2 Ottobre 2021
[dedicato al pittore e scultore Alessio Paternesi]
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