Gardenio Granata, Riflessioni sull’Amleto shakespeariano
«There are more things in heaven and earth, Horatio,
than are dreamt of in your philosophy»
[I , 5, 184-185: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia”]
Tutte le volte che cala il sipario su di una rappresentazione dell’Amleto è giocoforza chiedersi, come il Don Abbondio manzoniano davanti a Carneade: «Amleto, chi era costui?». “That is the question”.
Impresa non agevole, perché la definizione che a suo tempo diede del dramma T.S. Eliot, di essere «la Monna Lisa della letteratura» conserva intatta la sua forza, accentuata per noi uomini del XXI secolo da un’esperienza della modernità per più ragioni devastante, che rende Amleto – prima ancora di Shakespeare – un nostro contemporaneo!! Le sue domande sono le stesse che la storia ci costringe a porci ogni giorno, il giardino non sarchiato da lui evocato nel primo soliloquio lo abbiamo davanti agli occhi, metafora di un mondo guasto e incerto del proprio destino, mentre lo specchio davanti al quale ci collochiamo ogni mattina continua a rimandarci i lineamenti di un enigma.
Ciò che Amleto vede con gli occhi non lo consola, quello che rinviene nella propria coscienza lo sgomenta, smembrandogli l’io in schegge diseguali, come altrettante tessere di un “puzzle” al quale non sottostà alcun vero disegno. Più giovane del Don Chisciotte di Cervantes, ma come lui smarrito nel gran teatro del mondo, come l’eroe cervantino Amleto si porta dentro la nostalgia di tempi in cui la parola “essere” ancora conservava una primigenia sacralità e l’uomo sembrava fatto a “imago Dei”: una “Sehnsucht” protoromantica (nostalgia – struggimento), la sua, anch’essa priva di centro.
Indefinita nei contorni ma pur sempre capace di elargire pena. Se il pensiero dell’impossibilità di rimettere in sesto un mondo scardinato induce in lui una gamma di sentimenti transitanti dall’angoscia al tedio, la perdita degli affetti più privati assume la forma di un’ossessione prossima alla paranoia. Più debole dell’Oreste di Eschilo («Che devo fare, Pilade? Il sacro rispetto mi tratterrà dall’uccidere mia madre?», è questa la disperata domanda che Oreste si pone nel terzo episodio delle “Coefore” prima di vibrare il colpo mortale a Clitemnestra), Amleto non ha bisogno dell’esortazione del fantasma paterno (I, 5, 89–91) per sapere che può opporsi alla madre solo con l’arma della parola.
La celebre, densissima battuta «I will speak daggers to her» (III, 2, 339: “Le parlerò pugnali”), in cui il sostantivo “daggers” nasce e muore come metafora, si rivela il segno visibile della sua impotenza di fronte al dolore proprio e alla perversione altrui…La spinta a uccidere chi ha ucciso, proveniente da un trascendente a dir poco ambiguo, collide con la visione di un mondo immeritevole di tanto sforzo e atti così radicali.
Per Amleto uccidere non è un peccato mortale: è inutile. Nel mondo quale si espone ai suoi occhi e alla sua riflessione, il delitto di sangue non è che uno dei tanti epifenomeni del male, di un male destinato sempre e comunque a prevalere. Da questo punto di vista, le asserzioni di Marcello prima: «Something is rotten in the state of Denmark (I, 4, 72: “C’è del marcio nel regno di Danimarca”) e quella dello stesso Amleto: «Denmark’s a prison» (II, 2, 239: “La Danimarca è una prigione”) sono complementari fra loro. La chiosa di Rosencrantz: «Then is the world one» (ivi, 240: “Allora tutto il mondo lo è”) ci consente di chiudere il sillogismo: Se la Danimarca è marcia e La Danimarca è il mondo, è l’intero mondo a essere marcio!
È questo ridimensionamento, questa contrazione del tanto lodato macrocosmo ad «aiuola che ci fa tanto feroci» (Dante, Paradiso, XXII, 151) a dettare ad Amleto i due famosi versi: «The time is out of joint: O, cursèd spite / That ever I was born to set it right!» (I, 5, 205-206: “Tempi schiodati, i nostri. E non è una dannata beffa che proprio io avessi da nascere per rimetterli in sesto?”. Amleto non ha bisogno di un Copernico per accorgersi che le antiche certezze si sono sgretolate in macerie. Gli basta e avanza il luogo dove risiede, il castello, riflesso e fonte di ciò che sta di fuori: qui, dove tutti spiano tutti, dove non ci si può fidare di nessuno, brulica un’umanità degradata.
Il soliloquio successivo (III, 1, 62–94), forse il più straordinario della letteratura mondiale, che principia col celeberrimo «To be or not to be, that is the question (dove vorrei far notare che “question” non va reso con “problema” bensì con “domanda” → cfr. il latino “quaerere” → ”domandare per sapere”!) non è, a ben vedere, che il riassunto emozionale dei mali del mondo che ciascuno deve sopportare (“to bear”) e tali da indurre a lasciare questa terra dove ogni valore viene svuotato, calpestato…
Ma il timore rappresentato dall’«undiscovered country from whose bourn / No traveller returns» (“terra inesplorata da cui non tornò nessun viaggiatore” [con palese memoria del verso di Catullo (III, 11–12) dedicato alla morte del passero di Lesbia: «Qui nunc it per iter tenebricosum / illud, unde negant redire quemquam»: “il quale se ne va per un cammino di tenebre, da dove dicono che nessuno faccia ritorno”) trattiene ancora quaggiù nonostante la vita non dispensi gioie bensì angherie di tiranni, angosce del respinto amore, gli indugi della legge, i mediocri davanti a chi vale, la tracotanza dei potenti, il disprezzo dei boriosi, il merito non riconosciuto… Amleto prossimo nostro!
Prof. Gardenio Granata
30 Gennaio 2021
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