Gardenio Granata, Riflessioni di Seneca sulla vita e sulla morte
Noi dovremmo abitare in questa prigione del corpo tamquam migraturi, ma non c’è meditazione più necessaria della morte, perché tutti i malanni all’uomo possono capitare oppure no, ma la morte è un incontro inevitabile. La povertà, ad esempio, spaventa ma inutilmente, in quanto i passaggi di condizione sono mutevoli e talora imprevedibili.
E così si può dire delle malattie e di ogni altra avversità e, quindi, il problema del saggio stoico non è la morte ma la vita. Però alla vita si deve rinunciare se non ha più le credenziali per cui valga la pena sia vissuta. Certo è che la vita «non semper retinenda est: non enim vivere bonum est, sed bene vivere» (§ 4) → (“non sempre la vita va conservata: infatti non è un bene vivere, bensì vivere bene”). I §§ 14-17 della lettera 70 sono infarciti del termine “exire” con “exitus” ed “exeundum”. Esso tradisce la teoria che l’ha prodotto: il concetto platonico del “sòma” quale prigione dell’anima che, quando sopravviene la morte, “esce” dal corpo (tale attribuzione la si deve ai seguaci di Orfeo, dato che per questi l’anima sconta la pena delle colpe che deve espiare e ha questo involucro, immagine di una prigione (“desmoterìou eikòna”) affinché si salvi (“ìna sòzetai”).
Ed è sorprendente ritrovare il verbo “exire” in un contesto diverso, ad esempio nella lettera 54 dove Seneca racconta che la salute malferma gli aveva concesso una lunga tregua: «longum commeatum dederat mala valetudo», ma improvvisamente (“repente”), la malattia lo aveva assalito di nuovo. I forti attacchi d’asma, se si fossero intensificati, lo avrebbero portato alla morte; in tal caso il saggio stoico verrebbe certo cacciato dalla vita, egli invece ne esce: «eicior quidem sed tamquam exeam», il saggio non viene mai cacciato («numquam eicitur sapiens»). “Cacciati” vuol dire esserlo contro la propria volontà, ma il saggio stoico non fa nulla “invitus”: egli “vuole” ciò che la necessità gli imporrà («vult quod coactura est», sc. “necessitas”).
Si ricordi che «vir fortis ac sapiens non fugere debet e vita, sed exire». Le medesime considerazioni s’incontrano nei Pensieri di Marco Aurelio: «Esci una volta per tutte dalla vita, ma non adirato» (10). La porta di questa prigione è sempre aperta, cfr. Seneca “De providentia” 6, 7: «Ante omnia cavi – dice la provvidenza – ne quis vos teneret invitos; patet exitus […] nihil feci facilius quam mori». → (“Prima di tutto ho provveduto che nessuno vi trattenesse contro voglia; la porta è aperta: […] nulla ho reso più facile che morire”). Un’immagine uguale ricorre in Epitteto 3, 8, 6: «a te che soffri questi malanni è lecito conservare la felicità: ti ha aperto la porta», dove la provvidenza è chiamata Zeus: se ti capita qualcosa che non ti piace, «esci e non accusare nessuno».
Possiamo ora chiederci cosa sia la morte per Seneca. Essa va collocata fra le ingiurie che il saggio non teme, Epist. 82, 14: «morti, exilio, malae valetudini, dolori bus qua eque alia aut minus aut magis pertimuimus aut malitia aut virtus dat boni vel mali nomen» («alla morte, all’esilio, alla malattia, ai dolori e a tutto quello che temiamo in misura maggiore o minore, la malvagità o la virtù dà l’etichetta di bene o di male»). La morte, insomma, come volevano gli stoici, non è altro che uno fra gli “adiàfora”, le cose indifferenti. Cfr. Epist. 82, 14: «mors honesta est per illud quod honestum est, id est virtus et animus externa contemnens» → («la morte è resa onorevole da quella realtà che è onesta, cioè la virtù e un animo che sa disprezzare i beni estranei all’uomo»).
Così anche la morte va disprezzata, cfr. Seneca “De providentia” 6, 6: «Contemnite mortem: quae vos aut finis aut transfert» → (“Non curatevi della morte: che è o una fine o un passaggio”) come aveva detto Platone in Apologia 40 c: «il morire è una delle due cose, o è un nulla o è un mutamento e un passaggio dell’anima da questo mondo ad un altro luogo». Proseguendo con la lettera 82, che rappresenta la trattazione più lunga sulla morte, vi si legge: «Mors contemni debet magis quam solet» (16) → (“Si deve disprezzare la morte più di quanto si è soliti fare”); sulla morte si hanno tante convinzioni, l’ingegno di molti si è cimentato per accrescerne la triste fama, è stata dipinta alla stregua d’un carcere sotterraneo (“carcer infernus”), una regione oppressa da notte perpetua. E ancora in 82, 15: «illa quoque res morti nos alienat, quod haec iam novimus, illa ad quae transitori sumus nescimus qualia sint et horremus ignota» → («altro motivo che ci rende ripugnante la morte è che ignoriamo di quale natura siano le realtà a cui stiamo per approdare e abbiamo paura dell’ignoto») → [di questo passo si ricorderà Shakespeare nel celeberrimo monologo di Amleto].
Così, è tanto pazzo chi teme una sofferenza che non avrà e non avvertirà! → (Epist. 30, 6): «Tam demens autem est qui timet quod non est passurus, quam qui timet quod non est sensurus» → (“ È pazzo chi teme una cosa che non soffrirà quanto chi teme qualcosa che non sentirà”), perché l’uomo con la morte muterà solo residenza. Sarà proprio così?
Prof. Gardenio Granata
18 Novembre 2024
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