Gardenio Granata, Rilettura dell’Edipo Re (senza complesso) di Sofocle
Quando un re diventa cattivo detective ed enigmista fallito: antefatto
A Tebe infuriano carestia e pestilenza. Il popolo gemente supplica il re Edipo di soccorrere la città. “Non crediate di risvegliare un dormiente – dice il re – ho già pianto anch’io molte lacrime sulle nostre sventure, e ho già fatto ciò che era in mio potere fare: ho inviato Creonte, fratello della regina Giocasta, a interrogare l’oracolo delfico. Quando conosceremo il responso del dio sapremo come dobbiamo comportarci per scongiurare questo malanno”.
Creonte, atteso, ritorna, e riferisce il messaggio: Apollo ordina ai Tebani di allontanare l’orribile macchia che contamina la città. Ma che cosa intende il dio, chiede Edipo, come possiamo purificare la città? Creonte può spiegarlo: si tratta di punire un omicidio. Laio, il sovrano che regnava su Tebe prima di Edipo, era stato assasinato molto tempo prima, ma il colpevole non è mai stato scoperto. Troviamolo, cacciamolo dalla città oppure uccidiamolo: allora peste e carestia scompariranno! Edipo, di buon grado, si assume l’onere di condurre l’inchiesta…
The Murders in the Rue Morgue
«Quale canto cantavano le Sirene? E qual era il nome assunto da Achille quando si nascose a Sciro fra le donne? Simili domande, benché ci lascino sconcertati, non sono al di sopra di “qualsiasi possibile” congettura». Con questo motto di Sir Thomas Brownie (medico ed erudito del 600’) – contenuto in “Hydriotaphia, Urne-Burrial”, 1658 – si apre il celebre racconto di Edgar Allan Poe “I delitti della via Morgue” presente nella raccolta “The Fall of the House of Usher and others writings”.
A breve l’eroe della vicenda, l’investigatore monsieur Dupin, affronterà e risolverà l’incredibile caso delle due donne assassinate in una stanza rigorosamente chiusa dall’interno, lasciando così sbalorditi i poliziotti parigini. Ma prima di entrare nel vivo della storia, Poe si sofferma a scrivere una sorta di prologo filosofico alle straordinarie imprese del suo “detective”: spiegando quale sia la natura delle qualità “analitiche” e cosa significhi possederle.
«Le facoltà mentali definite analitiche, – dice dunque Poe, – offrono, a chi le possiede in misura eccezionale, una fonte continua di vivissimo godimento. Come un uomo robusto si esalta della propria abilità fisica, così l’analista di quella attività spirituale che consiste nel «districare» [“that moral activity which disentangles”]. Egli trae piacere da qualunque occupazione, anche la più banale, che possa mettere in moto le sue qualità: ama gli enigmi, gli indovinelli, i geroglifici, mostrando nelle soluzioni di ciascuno di essi un grado di “acumen” che appare del tutto sovrannaturale agli occhi delle persone comuni».
Dunque, dove la mente ordinaria si arresta, quella dell’analista si esalta. Solutore di complessi enigmi, l’analista è per eccellenza colui che districa matasse imbrogliate. Di fronte a due donne uccise in una stanza chiusa dall’interno, di cui una cacciata a forza nella cappa del camino e l’altra sfigurata da ferite che rivelano una forza straordinaria, Dupin concentra la sua attenzione su di una quantità di particolari sfuggiti all’attenzione degli inquirenti, e soprattutto tali che, almeno per una mente normale, non sembrano presentare “nessuna relazione” reciproca: cioè l’insolito ciuffo di capelli rimasto nelle mani di delle due povere vittime, poi la “strana” voce udita dai testimoni al momento del delitto,, infine l’unica, acrobatica possibilità di entrata e uscita dalla stanza che poteva essere disponibile all’assassino.
Da questi elementi Dupin, in modo del tutto imprevedibile, riuscirà a concludere che l’omicida non può essere che un orango entrato dalla finestra. E in effetti, è così! Il “detective” è intercambiabile con l’enigmista: e questo può accadere semplicemente perché il delitto compiuto nella “rue Morgue”, quello di cui occorre trovare il colpevole, è concepito da Poe esattamente come un enigma. Secondo Aristotele (“Poetica”, 2,2) la proprietà dell’enigma è la seguente: «legare fra loro delle cose che, pur essendo vere, non è possibile stiano insieme». Il risultato di questa connessione tra cose che (apparentemente) non possono averne nessuna, è una «per incredibilia confusa sententia», come sosteneva il grammatico Diomede (“un’affermazione tenuta insieme attraverso il ricorso all’incredibile”) [“Grammatici Latini, I, 451, Leipzig, 1868]; tal Diomede illustrava la sua definizione con un esempio per il nostro lavoro particolarmente significativo: «è nonna dei suoi figli colei che è la madre del marito, quando si tratta di Giocasta» →madre e poi moglie di Edipo da cui ha due figli e due figlie.
Pursuance of the work on Œdipus: Detective and King
Sulla base di quanto detto sopra appare ormai chiaro che il delitto, della cui inchiesta Edipo s’è assunto l’onere, ha la struttura di un enigma e che i fatti da esaminare paiono essere accaduti solo per “incredibilia”! La morte di Laio assume la forma di un “puzzle cronologico”, ondivago fra un passato nebuloso (che si tratterà di far emergere) e un presente non univoco bensì a struttura binaria. Edipo, che nel corso degli eventi tragici si autodefinirà al verso 1080 παἶδα τῆϛ Τύχηϛ (figlio della sorte) → quella benigna – aggiunge – con palese “ironia tragica” (da parte di Sofocle!) e per cui non ne uscirà disonorato, un passionale senza passioni (così almeno si ritiene fino al tracollo finale), si considera eccelso solutore di enigmi (pensava a quello postogli dalla Sfinge, che, risolto con superba intelligenza logica, lo aveva proiettato sul trono di Tebe e nel letto della vedova regina Giocasta); quindi nutre la marcata convinzione (apparentemente) di poter risolvere anche l’enigma-omicidio di Laio.
Ora nella focalizzazione dello sviluppo drammatico, il malanno della peste ha dunque ceduto il campo alla sua “causa”: un omicidio di cui occorre scoprire il colpevole. Conseguentemente il re, il baluardo della città, un “padre” generoso (non a caso si rivolge al popolo con l’emozionale appellativo «O figli»), il suo unico soccorritore, non può che trasformarsi in “detective”. Alla morte di Laio, dice Edipo, si sarebbe dovuta svolgere subito una «inchiesta» (“éreuma”): perché non lo avete fatto? Bisogna farlo adesso. E a questo punto, se non lo spettatore del V secolo, il lettore di oggi deve porsi lui quella “pericolosa” domanda onde evitare di aggiungersi alla numerosa schiera di coloro che nei secoli hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti progressivamente inquietanti e cruenti dell’eroe costretto dal destino a dover scoprire di essere lui l’uccisore del padre, lui il figlio incestuoso, lui il liberatore dal mostro sfingico, la rovina di Tebe!
Infatti l’analisi critica del testo sofocleo indica non solo un ampio uso della categoria del «doppio» applicata alla parola, alla frase e a interi periodi narrativi, ma segnala anche la sua estensione all’intera tragedia. In altri termini si evince, attraverso una lettura semiologica, capace di risemantizzare il testo, essere l’“Edipo Re” una «tragedia doppia» nel suo insieme, basata su di un impianto logico costringente, doppia come un sogno, a tratti chiara e coerente, a tratti del tutto ambigua e incoerente. Il doppio della tragedia, come i due piatti di una bilancia allineati su di un piano orizzontale, è in perfetto equilibrio tra due versioni che riguardano essenzialmente il tema del sapere/non – sapere: una versione, quella tradizionale del “non – sapere” dei personaggi; viene esposta in piena luce, mentre l’altra versione, quella del “sapere” dei personaggi, viene occultata in piena luce.
Però, delle due versioni della tragedia, Sofocle ha l’accortezza di mantenere in evidenza quella del “non–sapere”, la versione più edificante che e quindi anche la più rassicurante per chi si trova di fronte ai sotterranei dell’anima. Sulla base di queste considerazioni l’“Edipo Re” è da leggere tenendo presente il seguente motto: «Tutti i personaggi della tragedia sanno molto, molti sanno tutto, tutti fingono di non sapere».
Emergono così due aspetti fondamentali a livello interpretativo: lo “pseudos”→la menzogna-finzione e l’omertà! Non sappiamo per qual motivo la tragedia sofoclea fu sconfitta alla sua prima rappresentazione (nell’agone tragico la vittoria andò a un certo Filocle, un autore di cui non ci è pervenuto nulla e la cui figura si perde nella notte dei tempi). Non sappiamo se quel pubblico esigente non la comprese o, cosa più probabile, la comprese troppo bene da giudicarla blasfema.
Sta di fatto che, se quanto detto finora è plausibile, ho l’impressione che il vero enigma della tragedia sia la tragedia stessa, come se la Sfinge, prima ancora d’essere evocata in scena, si collochi all’entrata del teatro e interroghi lo spettatore sui delitti di cui la tragedia tratta, ponendo una domanda che metteva in gioco il fondamento stesso delle istituzioni sociali della “polis”: «i delitti commessi da Edipo furono voluti o non voluti?» Questo enigma mette a nudo non solo la debolezza delle regole istituzionali, ma si colloca su ben altro piano rispetto all’indovinello edificante attribuito dalla tradizione alla Sfinge senza che ve ne sia alcuna traccia nella tragedia.
Œdipus inquisitor under investigation: between lies and fear of truth
Giocasta: «Aver paura di che, se siamo in potere del caso? Se non possiamo prevedere nulla di chiaro?
La cosa migliore è vivere come viene! Perchè dovresti aver paura di andare a letto con tua madre?
Non sono che sogni: sai quanti hanno creduto in sogno di farlo con la propria madre?
Edipo dammi retta, si tratta di non tener conto di queste cose… e la vita diviene più semplice»
[Edipo Re, vv.977 – 983]
Sono queste le parole che Giocasta rivolge a Edipo, che ha perso l’apparente sicurezza dell’investigatore in cerca di prove per scovare il colpevole di quella sciagurata situazione della Tebe su cui regna. Il sovrano vuole ricomporre il suo passato col presente, la sua storia… i dubbi e le ansie cominciano a corroderlo; non ne conosce ancora il motivo con chiarezza e proprio questo lo affanna e assilla!!
E le parole di Giocasta gli suonano “strane”, aprono varchi nel suo animo. La sicurezza palesata dalla regina gli pare indurlo verso una scelta in totale contrasto con l’impegno assunto: trovare l’assassino di Laio e quindi liberare Tebe dalla pestilenza da una parte e dall’altra dopo i litigi con Creonte suo cognato e l’indovino cieco Tiresia e le accuse nei loro confronti di ordire una congiura contro la sua persona (ne parleremo in altra occasione), si spaventa e vuole saperne di più su di sé. Paradossalmente il motto delfico tanto venerato da tutti: «CONOSCI TE STESSO» si rivelerà per lui rovinoso!! Il rovesciamento della conoscenza di sé stessi presentata al pubblico ateniese da Sofocle non poteva non avere implicazioni “politiche”… come del resto le parole di Giocasta rivolte a lui, Edipo, solutore di enigmi e obbediente agli oracoli!!
Vediamo allora più da vicino l’assunto teorico delle parole di Giocasta → Non solo ella nega ogni validità alla mantica umana, ma mette persino in dubbio quella divina, e suggerisce, comunque, di sottoporre gli oracoli ad un’inchiesta indiziaria (terminologia tribunalizia ben espressa da un verbo come “tekmairesthai” → cercare indizi e valutarli → [prima volta nel mondo greco in cui l’umano intende valutare il divino attraverso metodologie d’indagine causidiche!]).
Tutto questo ricorda da vicino lo storico Tucidide (“La guerra del Peloponneso”) e il suo trattamento scettico degli oracoli del Pelargico (II, 17) e della drammatica peste di Atene (II, 54): in entrambi i casi egli segnala l’equivocità degli oracoli, la loro adattabilità alle circostanze più diverse, in definitiva la loro scarsa attendibilità.
Ma Giocasta, nonostante queste apparenze, non è una iper-razionalista. L’attacco agli oracoli non è condotto dal punto di vista di una razionalità profana che disponga di altre tecniche di previsione. Anzi la madre-moglie di Edipo rifiuta nettamente la possibilità di quella previsione (“prònoia”), che costituiva una struttura portante del sapere indiziario, tanto medico quanto storiografico: la previsione non raggiunge alcuna certezza (“saphès”) perché le cose umane sono dominate dalla sorte e dal caso (“tyche”). Il rovesciamento di prospettiva è radicale: Tucidide sostiene che il termine (“tyche”) non è altro che il nome che siamo soliti dare a quanto accade fuori della nostra previsione razionale e segnala quindi unicamente una provvisoria “défaillance” del “logos”(I, 140). Il richiamo al dominio della “tyche” rovescia dunque l’apparente iper-razionalismo di Giocasta in un irrazionalismo; il sapere divino dell’oracolo non viene negato in nome di una conoscenza razionale, ma contro ogni forma di conoscenza.
L’ultima parola di Giocasta si rivela chiarificatrice: ad Edipo che ha rivolto l’indagine su se stesso, ella dice: «È meglio che tu non sappia chi sei» (v. 1068). Ma questo, ci chiediamo noi, vale solo per Edipo? Giocasta sa? Proprio qui sta la grandezza di Sofocle!! La creazione di una dimensione tragica che si sposa con una sorta di “mystery story” dove l’investigatore compulsivo finisce “under Investigation”… Eschilo aveva sostenuto nel suo universo tragico che “to pàthei màthos” → “attraverso il dolore la conoscenza”, qui invece vale l’opposto → il sapere annienta.
Nella Bibbia leggeremo che “Scientia auget dolorem” → “la conoscenza accresce il dolore”!! Giocasta si avvale dunque di strumenti concettuali raffinati (la polemica razionalistica contro gli oracoli, l’opposizione “Tyche vs Prònoia” → Sorte-Caso vs Previsione) opposti fra loro ma convergenti nell’unico fine di occultare la verità, di proteggerla dalla penetrazione indebita di qualsivoglia sapere , umano o divino che sia. In qualche modo, ella sa che la verità non deve venir conosciuta: ma le forme misteriose di questo suo larvale sapere non passano attraverso l’inchiesta dello sguardo e della parola. Esse giacciono probabilmente nei solchi che l’“aratura” e la “semina” di padre e figlio hanno tracciato sul suo corpo.
Tra letteratura e antropologia: il nome “EDIPO”. storia di un eroe colpevolmente innocente.
È propria dell’antica mentalità greca la credenza in una specifica correlazione fra il nome e l’oggetto che esso designa, e, similmente, tra il nome proprio e la persona. Per questa ragione, nell’ambito della produzione letteraria greca arcaica, il nome proprio di dei e uomini è spesso un “nome parlante” (ἑπώνυμον → eponimo) , cioè trasparente nel suo significato, in quanto indica esattamente ciò che significa. In altre parole, si tratta di nomi in cui “significante” e “significato” coincidono, vale a dire di nomi indicanti-rivelanti ciò che la persona è, la sua essenza.
Tale è, appunto, il caso del nome Edipo [Оỉδίπᴏυϛ scomposto nei suoi elementi – Оίδ(ɩ) <ᴏỉδέω → sono gonfio e πᴏύϛ → piede – significa “piede gonfio”]. Questo nome, dunque, rileva un elemento distintivo della persona, cioè accentua ciò che Edipo è: un uomo dai piedi gonfi. Ora questa è la posizione assunta dai tutti i più insigni grecisti del mondo!! Trovo personalmente alquanto strano che a fior di studiosi sia clamorosamente sfuggito che il verbo <ᴏỉδέω (oidèo) possiede anche un altro significato : “sono in agitazione, in fermento”, insomma un legame con il campo semantico di un movimento irrequieto!!!
Ciò non esclude affatto il “gonfiore” che troverà diverse conferme come vedremo e tutte suffragate dagli avvenimenti toccati in sorte al piccolo Edipo fatto abbandonare sul monte Citerone da un pastore per ordine di suo padre Laio con i piedi traforati affinchè lì morisse (eliminando così il pericolo annunciato dall’oracolo delfico → se Laio avesse avuto un figlio da Giocasta costui l’avrebbe ucciso!!). Ma a rendere ragione della duplicità di tutta la storia anche l’ipotesi di “piedi in agitazione” per indicare l’incapacità di Edipo di rimanere appagato da una dimensione stanziale e quindi sempre “on the road” per la sua irrequietezza che dai piedi si trasferisce nell’animo in perenne subbuglio!! I piedi del Nostro (gonfi o “in agitazione”) focalizzano comunque un tratto rappresentativo della sua essenza di uomo: la storia del suo nome non è che quella della sua vicenda personale, la storia della sua “tragedia”.
Vorrei ricordare che di questa mia parallela interpretazione ebbi la fortuna di parlarne con un gigante del pensiero quale fu Michel Foucault nel periodo in cui frequentavo a Parigi i suoi corsi al Collège de France e fui da lui incoraggiato a proseguire su questa strada!!! La sua smisurata cultura, le sue superbe lezioni furono per me un appoggio di un livello mai più neppure sfiorato e di cui gli sarò grato per sempre! Mi scuso per questa breve parentesi autobiografica, ma tra le poche cose di cui posso menar vanto questa resta nella mia memoria una di quelle!
Come abbiamo visto la storia del nome Edipo coincide con quella della sua vicenda personale, una storia che pone in primo piano la sua dimensione tragica. Tale susseguirsi di fatti viene ora dispiegato nella scena con il messo Corinzio (vv. 1032-1036 ); dalle notizie che Edipo ottiene, attraverso un serrato interrogatorio, egli arriva a conoscere, con la sua origine di trovatello abbandonato, l’origine del suo nome: il messo narra di averlo trovato “con le estremità dei piedi traforate” (v. 1034); da questa sorte toccatagli, è stato chiamato “quale egli è” (v.1036). La mutilazione subita sarebbe alla base del suo caratteristico gonfiore ai piedi, onde il nome “Oidìpous”.
Inizia dal nome il recupero della propria essenza, della propria identità. Occorre, adesso, chiarire la peculiare portata di questa mutilazione per una comprensione più profonda del significato che la figura di Edipo con tale nome acquista nel contesto complessivo della vicenda tragica. Intanto si può osservare che un valido indizio a riguardo è procurato proprio dalle parte del corpo su cui è stata realizzata la menomazione che, inevitabilmente, comporta un “blocco”, un impedimento nel movimento (pur senza dimenticare l’inquieto desiderio del Nostro di “procedere” verso un’oltranza vieppiù pericolosa…).
Anche le metafore linguistiche portano in questa direzione: in greco, frequente è l’uso di termini in cui la nozione dell’ “impedire” o “trattenere” viene realizzata tramite quella di “piede”. Così, ad esempio, “empodìzein” significa: “chiudere i piedi in ceppi”, cioè “impedire, ostacolare (il movimento dei piedi)”; similmente gli aggettivi e sostantivi derivati, quali: “empòdios” (“che è d’impedimento, dimpaccio”), “empòdisma” (“impedimento”), “empodismòs” (“l’impedire”) etc. Tenuto conto di ciò, la mutilazione ai piedi di Edipo e il nome che genera hanno un significato ben più ampio rispetto a quanto può sembrare ad una prima analisi: Edipo è un personaggio che deve essere impedito, ostacolato nel movimento, al fine di evitare un possibile cammino che lo veda raggiungere il padre Laio che è destinato a uccidere e la madre Giocasta che è destinato a sposare. Per ostacolarlo, dunque, lo si colpisce proprio ai piedi, cioè nel luogo di “impedimento” per eccellenza. Edipo è, pertanto, “l’uomo impedito nei piedi” che tuttavia percorre il cammino tragico assegnatogli dalla “tyke” (“la sorte”).
Attendibile e particolarmente significativa risulta anche un’altra etimologia, e un’altra spiegazione, per il nome “Oìdipous”: essa consiste nel far derivare il primo elemento del composto da “oìda” → “sapere”. Di qui il significato di “colui che sa”. Il secondo elemento del composto, “poùs”, (piede) , richiamerebbe una componente distintiva dell’enigma della Sfinge: questa, infatti, chiedeva (pena la morte!) quale essere avesse “due, quattro e tre piedi” (l’uomo). Secondo questa diversa interpretazone etimologica, “Oìdipous” verrebbe a significare, all’incirca: “colui che sa dei piedi”. In tal caso, il nome Edipo recherebbe in sé traccia di un’altra delle vicende fondamentali dell’esistenza di quell’uomo così chiamato, vale a dire la risoluzione dell’enigma sfingico: egli è stato l’unico in grado di “sapere” cosa simboleggiassero i piedi, nella loro differente quantità. Ciò testimonia in lui quella “sollertia ingenii” (prontezza dell’ingegno) che gli ha procurato una posizione di privilegio presso i Tebani (divenire Re e sposare la regina vedova), “sollertia” che pure contribuisce a segnare il suo “cammino” tragico!
Le interpretazioni del nome danno ragione dell’essenza del personaggio e, insieme, alludono ai momenti salienti della sua vicenda. Inoltre rispondono a talune verità sul piano delle credenze culturali in senso antropologico: troviamo testimonianza, in personaggi del mito, di una correlazione alquanto stabile tra la menomazione ai piedi e il possesso di qualità mentali straordinarie.
Si pensi ad Efesto (cfr. ad esempio “Iliade” 18, vv. 394-397), il noto dio zoppo (“kullopodìon”) o (“anfiguéeis” → “zoppo ad entrambi i piedi”): in maniera significativa ad esso sono associati epiteti quali quelli attribuiti a Odisseo (molto saggio, astuto, intelligente, ingegnoso) denotanti il possesso di multiformi capacità intellettive che si concretano in una sorprendente abilità demiurgica: (cfr. “Iliade”, 18, 468-616) in cui Efesto è impegnato nella fabbricazione delle famose armi di Achille e “Odissea” 8, 266-366 dove lo vediamo immerso nell’ingegnosa preparazione della trappola per Ares e Afrodite → operazioni che presuppongono una sorvegliata intelligenza e sagacia, doti assai simili a quelle odissiache!
Interessante il fatto che Efesto condivida con Edipo, oltre la menomazione podalica e le peculiari qualità mentali, anche una vicenda di “abbandono”, per così dire: secondo la versione iliadica, infatti, fu precipitato dall’Olimpo dalla stessa madre (Era-Giunone) in quanto zoppo. Altro esempio mitico è Melampo (“dai piedi neri”): come Edipo (e un po’ come Efesto) è un bambino “esposto” i cui piedi, per dimenticanza da parte della madre, furono lasciati bruciare al sole, onde il colore nero delle estremità, implicito nel suo nome →(mèlas = nero/ pòus = piede). Ma, a questo difetto ai piedi, si accompagnano doti intellettive particolari: egli conosce il linguaggio degli animali, possiede facoltà divinatorie e di guaritore! (cfr. Esiodo, “Catalogo delle donne”, fr. 37, 14 e Apollodoro, “Biblioteca”, 1. 9, 11-12).
Tale correlazione fra sviluppate capacità mentali e menomazione ai piedi, testimoniata dai personaggi mitici, può spiegarsi sul piano antropologico in questi termini: lo zoppo, l’uomo impedito a livello “locomotorio”, ha di fatto più necessità e opportunità di sviluppare le proprie doti intellettuali; diviene, perciò, capace di muoversi e camminare su di un terreno intellettuale o tecnico che ai sani sovente rimane precluso. Si tratta, a ben guardare, di un tipo di rapporto simile a quello instaurantesi tra menomazione agli occhi [cecità] e sviluppo di peculiari qualità mentali come le doti profetiche che consentono di vedere con gli occhi interiori → si pensi ad esempio a Tiresia, l’indovino cieco, che avrà non poca parte nella rivelazione-accusa verso Edipo.
Sulla pase di quanto detto, per ciò che concerne Edipo, possiamo dunque accogliere le tre interpretazioni del significato del suo nome: da un lato, nella logica del mito, Edipo “, che ha piedi gonfi”, è anche “colui che sa dei piedi”; dall’all’altro, “piedi agitati, in tensione verso percorsi ignoti”, perfettamente coerente con le credenze collettive, per cui ad uno zoppo compete una forma superiore di intelligenza esplorativa! Vi è ancora un altro tratto caratteristico dell’ “eroe dai piedi gonfi”, il cui significato va considerato nel panorama che l’antropologia applicata allo studio delle “ancient beliefs” ha evidenziato.
Secondo queste ultime esiste una marcata relazione tra il difetto fisico della zoppìa e la tendenza caratteriale alla voluttà e trasgressione sessuale! Anche di ciò troviamo conferma in alcuni miti di eroi greci. Ad esempio , nelle vicende piuttosto truculente di Telefo e Licurgo. Del primo si racconta che, uccisi gli zii materni (un delitto dunque in seno alla famiglia), rischiò di commettere incesto con la madre; contestualmente egli, nel mito, risulta zoppo (cfr. Apollodoro, “Biblioteca” 2. 7. 4). Licurgo invece, in preda ai fumi del vino cerca di violentare la madre; anch’egli contestualmente si azzoppa (cfr. Igino, “Fabulae”, 132).
Approfondimenti sul ruolo dei piedi nella “nuova famiglia” di Edipo: psicanalisi e antropologia folklorica
A questo riguardo si può osservare che luogo comune del costume popolare greco (e non solo) e della psicanalisi è la relazione tra piedi e genitali. Ho analizzato tale genere di connessione in rapporto al significato della mutilazione, da cui proviene il nome “Edipo”. In quanto i piedi risultano simbolo degli organi genitali maschili, sono il luogo più adatto alla mutilazione, onde impedire, specificamente, l’incesto profetizzato dall’oracolo!
Ma se noi approfondiamo il tema della claudicazione (anche come esito della zoppìa), ci accorgiamo della presenza di un difetto ai piedi presente nelle ultime tre generazioni dei Labdacidi. Rispettivamente: Làbdakos, nonno di Edipo e padre di Laio a sua volta padre di Edipo; i primi due hanno un nome che in greco inizia con la lettera maiuscola “lambda” → Λ e minuscola → λ che nella simbologia grafica greca designano le due gambe in modo diverso (la sinistra più corta!) e quindi una locomozione non in equilibrio! Λàbdakos o λàbdakos è lo zoppo, squilibrato nel camminare per non avere le gambe uguali; Λàios/ λàios è l’asimmetrico, il “sinistro”, entrambi con tendenze omoerotiche.
Làbdaco , lo zoppo, muore quando Làio ha solo un anno; per cui viene interrotta la comunicazione padre-figlio e con essa la legittima linea di successione: il trono di Tebe va ad un estraneo di nome Lico (ancora la lettera làmbda iniziale → Λ / λ → Lùkos , in greco veniva chiamato il lupo affetto da zoppìa, feroce e sanguinario → si crea, dunque, una incomunicabilità generazionale e totalmente diseducativa (Lico, narrano gli antichi mitografi, prediligeva rapporti omoerotici violenti…).
Làio, il sinistro, divenuto adulto, si rivela “squilibrato” nelle sue relazioni sessuali, orienta il suo comportamento erotico sul piano di una marcata omosessualità che lo porta (nel frattempo è lontano da Tebe) fare violenza al figlio di Pelope (di nome Crisippo → “cavallo dorato”), suo ospite. Làio vuole continuamente “stuprare” il bellissimo e dai capelli biondo-oro per via anale →(“a retro more ferarum” chiosa un frammento di un antico tragico latino (Accio). Questo personaggio brutale (Làio) esige di masturbare Crisippo con i piedi, e una volta inondati di sperma lo obbliga a leccarli!! Làio infrange così le regole di “simmetria” e reciprocità esistenti sia fra amanti che tra ospiti, e in seguito al suicidio del giovane violentato, Pelope lo caccia con una maledizione (per noi fondamentale): la sua stirpe dovrà estinguersi con un caos parentale tragico!! Il rapporto zoppìa–trasgressione sessuale prende vieppiù forma!
Tornato a Tebe e ristabilito sul trono (Lico era morto) sposa Giocasta ma viene ammonito da un oracolo a non mettere al mondo figli. Pena: la generazione di un figlio che lo ucciderà e giacerà con la madre, cioè la generazione di un “mostro” (incomunicabilità sessuale). Giocasta è al corrente di tale vaticinio e di conseguenza i due sposi si accordano di evitare rapporti sessuali penetrativi e alternano rapporti orali che a Làio non sono particolarmente graditi con masturbazioni podaliche reciproche (al nuovo Re preferiti in quanto gli ricordano il giovane Crisippo!! Poi una sera Làio ubriaco, nonostante i dinieghi di Giocasta, la possiede con la sua consueta violenza e la incinta! Nascerà un bimbo che nel tempo sarà, ma non da loro, chiamato Edipo! Come vedete il ruolo dei piedi si rivela capitale! Così come la connessione piedi-genitali!
Ad esclusione di Giocasta (lei non è zoppa ma partecipa con i suoi piedi…), Làbdako, Lico, Làio e poi Edipo sono claudicanti e trasgressori sessuali!! Paradossalmente l’unico a vivere un eros “freddo” e distaccato è quello che si rivelerà l’esecutore dell’augurio nefasto di Pelope → parricidio / incesto!! Il caos parentale di cui pagherà il prezzo più alto pur non avendo agito consapevolmente.
Apro una breve parentesi sulla contemporaneità: a partire dalla pubblicazione a Stoccarda nel 1886 da parte dello psichiatra R.F. von Krafft-Ebing del grosso volume PSYCHOPATHIA SEXUALIS e, a prescindere da certa innovativa psicologia anglo-americana, la masturbazione con i piedi e più in generale l’impiego e l’attrazione erotica esercitata dalle estremità (più femminili che maschili) viene considerata una “parafilia” o perversione sessuale!!! Oggi psicanalisti, psicoterapeuti, psichiatri e psicologi (quelli che conoscono e hanno studiato l’eros nel mondo antico) hanno derubricato tale forma di erotismo dalle parafilie (purché non unica forma di rapporto sessuale) inserendola assieme ad altre manifestazioni nel più complessivo “ludus” erotico!!! Come era giusto e normale che avvenisse! Ovviamente nella stirpe disastrata dei Labdacidi il ruolo dei piedi va studiato per arrivare alla nostre provvisorie conclusioni cui mancano ancora non pochi tasselli…
La Sfinge e il rapporto zoppìa-enigma. Generazioni “con-fuse”…
Nel cercare il significato profondo di questo difetto podalico ho preso in considerazione il tema dell’enigma della Sfinge il cui contenuto pur vertendo sui piedi apre nuovi scenari per entrare nelle zone oscure della vicenda tragica di Edipo! L’enigma sul “numero” delle estremità andrebbe inteso come una domanda formulata in maniera tale che la risposta non giunga a risolverla, bensì resti separata; in tali termini l’enigma implica un difetto o un’impossibilità di comunicazione fra due interlocutori, giacché il primo pone una domanda a cui l’altro non può rispondere, e, di fronte a cui, quindi, resta in silenzio, o meglio mostra difficoltà a parlare; in altre parole: “zoppica non con il piede ma con la lingua”.
Sulla base di tale immagine (fornita dal testo), la zoppìa, più in generale è intesa come “traduzione fisica”, per così dire, di una incomunicabilità a vari livelli della vita sociale:
- a livello della comunicazione sessuale e trasmissione della vita (il normale parto si contrappone alla sterilità/mostruosità dei rapporti incestuosi);
- a livello della comunicazione tra generazioni successive (è impedita la normale trasmissione dal padre ai figli del suo proprio statuto);
- a livello della comunicazione fra sé e sé (la coscienza e trasparenza a se stessi si contrappone alla divisione e sdoppiamento di sé, come appunto in Edipo).
[Ricordiamo che il nome Sfinge (“colei che prende alla gola”, “stringe il collo” → soffoca (dal verbo greco “Sphingo”) con la sua etimologia motiva la “parola zoppicante” dell’interlocutore (non a caso, secondo i mitografi antichi, vedendo l’iniziale imbarazzo di Edipo a rispondere gli chiede se per caso non fosse un “barbaro” vale a dire uno che balbetta la lingua greca → la duplicazione di BAR-BAR seguito da BA/RO indicherebbe il balbettìo…; inoltre la Sfinge (essere mostruoso) si narra si unisse sessualmente alle sue vittime usando loro violenza stringendoli al collo → emblema di un connubio raccapricciante].
Ora fatta chiarezza su questi aspetti, ricorderete la maledizione di Pelope nei confronti di Làio (violentatore del figlio Crisippo): se avesse generato un figlio avrebbe subito il parricidio da parte di costui e poi un incesto a maculare la sua stirpe, insomma la generazione di un “mostro”!! Noi sappiamo che finirà proprio così!: verrà generato Edipo… Al ben noto crocicchio (vv. 715-716) le due generazioni di zoppi, anziché succedersi, si scontrano con la morte di Làio. Quindi Edipo si “trascina” fino a Tebe e qui risolve l’enigma sfingico che terrorizzava gli abitanti della città della Beozia. Risolvendo l’enigma, ricongiungendo cioè la risposta alla domanda, ricongiunge inconsapevolmente se stesso al proprio luogo d’origine: sul trono del padre e nel letto della madre.
Il suo “cammino”, anziché renderlo simile ad un qualsiasi altro uomo che procede “diritto” nella successione di una discendenza, lo identifica con “l’essere” evocato dalla Sfinge, quello che “di volta in volta e contemporaneamente” è a due, tre e quattro piedi, vale a dire l’uomo che procedendo nell’età non realizza né rispetta, bensì mescola e confonde l’ordine normale delle generazioni. (Infatti quando Edipo risponde alla domanda della Sfinge dicendo essere l’uomo la soluzione dell’enigma, non sa che sta indicando se stesso!!!). Edipo è l’adulto a due piedi identico a suo padre, cioè, quindi, al vecchio “a tre piedi” (il bastone!): di lui prenderà il posto nel letto della regina vedova e madre ignara; qui, in quanto figlio di Giocasta, diviene identico ai suoi bambini “a quattro piedi”, che sono simultaneamente figli e fratelli.
I due figli maschi Eteocle e Polinice non comunicheranno mai normalmente tra loro, proprio come Làio, l’asimmetrico λ Λ, e Edipo lo zoppo (che sa dei piedi! “piedi gonfi”/ “piedi esaltati”); essi si affronteranno – come Edipo e Làio – e si daranno la morte l’un l’altro. Così, al termine di questa devianza sotto il segno della zoppìa, la stirpe ritornerà al punto di partenza estinguendosi, giacché era destino che il “sinistro” Làio, figlio di Làbdakos lo zoppo, non avesse una discendenza “retta”.
Tiresia, Edipo e la verità: due modi di conoscenza posti a confronto
Come nel prologo Edipo, sovrano di Tebe, si trova nuovamente a confronto con i suoi sudditi (questa volta rappresentati dal Coro degli anziani) angosciati dalla rovinosa situazione in cui versa la città (l’epidemia della peste e le innumerevoli vittime!). Il suo atteggiamento conferma l’immagine di sovrano sollecito, premuroso “padre della patria”, emerso nel prologo: provvede immediatamente ad adottare quelle soluzioni che si presentano, per l’occasione, le più opportune allo scopo di realizzare le prescrizioni di Apollo e salvare, così, la città.
Bandisce un editto per essere aiutato dai cittadini nella ricerca del “contaminatore”: egli, estraneo all’accaduto (e di ciò è assolutamente convinto!!) e divenuto cittadino di Tebe dopo “l’incidente”, non ha alcuna traccia da cui partire; di qui la necessità di aiuto da parte dei Tebani. Contemporaneamente, e sempre al fine di procurarsi un qualche indizio, manda a chiamare l’esperto conoscitore delle “cose divine”, l’indovino cieco Tiresia. La sua competenza è richiesta per la “salus” della “polis”: per essa Edipo è disposto ad abdicare, per così dire, al suo ruolo di “salvatore” (aveva sconfitto la Sfinge), riconoscendo in Tiresia “l’unico difensore e salvatore” della città (vv.303-304); per essa, egli che è il Re, si dichiara “essere nelle mani” dell’indovino (v. 314); per essa, infine, egli, re-padre (ironia tragica!) supplicato, si prostra supplice, insieme ai suoi sudditi-supplici, davanti all’indovino (v.327).
Edipo si mostra così talmente preso dalla sua missione nei riguardi della “polis” che reputa il bebenessere di quella ben più importante della propria persona e vita. Cosicché, quando Tiresia gli rinfaccia il successo ottenuto con la Sfinge come una “fortuna” che decreterà la sua rovina, Edipo risponde: «Ma se ho tratto in salvo questa città, non me ne preoccupo» (v. 443). Ancora: è sul piano dell’interesse di Tebe che egli valuta la reticenza, mostrata fin dall’inizio da Tiresia, a rivelare ciò che sa e che può essere di aiuto: il suo atteggiamento non è conforme ai doveri del suo ruolo di profeta, quali sono previsti all’interno di una comunità; né è “amichevole” nei confronti della città (cfr. v. 322). Ed è questo suo “modus operandi”, apparentemente ostile alla “polis”, a provocare l’ira del sovrano: per Edipo Tiresia è uno che sa la verità e non vuole dirla (omertà!); uno che ha la possibilità di salvare Tebe e non vuole farlo!
Tanto dal Coro quanto da Edipo Tiresia è, almeno inizialmente, considerato un elemento chiave nell’indagine cui si dà inizio onde identificare la causa delle attuali sofferenze di Tebe. Egli è colui che «vede ogni cosa quasi al pari del signore Apollo» (vv. 284-285), di cui è ministro; vale a dire possiede una onniscienza che lo colloca al di sopra dei comuni mortali e quasi sullo stesso piano del dio. Questa onniscienza, infatti, non gli deriva da capacità intellettive umane, bensì gli è ispirata dal dio; in quanto tale, essa è portatrice di verità la quale è innata alla sua natura di indovino; Tiresia, pertanto, la possiede “per natura”, non necessita d’indagini per giungere ad essa.
Tale possesso consente a Tiresia di “vedere” – egli cieco, con gli occhi lucidi della mente – e di comprendere la realtà delle cose nella loro intima verità, al di là di quel che appare in superficie. La “alétheia” (→ verità) dell’indovino è, dunque, la conoscenza di “ciò che non resta nascosto, che non sfugge” (secondo l’etimologia del termine: “a-lanthànesthai”) ai suoi occhi, cioè la comprensione di quel che è dietro la realtà “fenomenica” (“che appare” → da “phaìnesthai”). Questa realtà è quella che può essere percepita, e scambiata per verità, dall’uomo intellettualmente dotato che si affida agli strumenti, propriamente umani, capaci di procurare un accesso immediato alla conoscenza delle cose: il vedere e il sentire; tale uomo è appunto Edipo, che si troverà a fare i conti con la sua convinta grandezza intellettuale quando la vedrà crollare miseramente a fronte di un sapere che non si limita a “graffiare” le cose ma che sa penetrarle.
Diverse modalità del sapere: Edipo vs Tiresia. Metamorfosi del “vedere”… Estraneità vs fortuna: nel cuore dell’ambiguità tragica
La capacità intellettiva e conoscitiva di Tiresia trova espressione nel verbo “phronéin”, che designa non solo possesso di assennatezza ma anche e soprattutto capacità di conoscere e comprendere a fondo le cose e agire di conseguenza. Questo verbo, emblematico dell’essenza di Tiresia, non a caso ricorre nei momenti cruciali! In particolare nell’invito supplichevole a parlare rivoltogli da Edipo, visto che lui “sa, conosce” (v.326); nel rifiuto di Tiresia a dire proprio in quanto gli altri “non sanno” veramente (v. 328).
Qui più che altrove il “phronéin” appare elemento discriminante tra le competenze dell’indovino e quelle degli altri uomini, ivi compreso Edipo. A questi sfugge, cioè “resta nascosto” alla sua coscienza quale sia la verità su cui indaga. Edipo, lungi dal possederla “per natura”, come Tiresia, ne fa oggetto di una ricerca condotta con gli strumenti della percezione fisica della realtà e soppesata, secondo un sistema logico-deduttivo, con la forza del proprio ingegno. Cosicché Edipo acquisisce la conoscenza apprendendo dai dati che vista e udito gli forniscono.
Da questi però, nonostante il suo zelo nell’accertamento e nella verifica, non riesce a sceverare la verità, giacché questa a lui rimane nascosta dietro ciò che gli occhi e le orecchie fanno credere essere la realtà. Di qui il suo procedere “per congetture”, quale quella del complotto politico: Edipo “vede”, lì davanti a sé sulla scena, e “sente” la continua reticenza di Tiresia a parlare; “vede” l’atteggiamento rigido assunto dall’indovino e “avverte”il suo invito provocatorio a incollerirsi. Edipo sa che il ministro di Apollo conosce la verità ma, “vedendo” e “sentendo” queste cose, deduce avere quello uno specifico interesse a non rivelarla. Conclude , pertanto, che ciò derivi da un sospetto già alimentato in precedenza (vv.124-125; 139-141). Di qui la sua accusa a Tiresia: «Sappi, infatti, che tu mi sembri aver tramato e compiuto il fatto […]» (vv.346-349).
Ma ciò che la vista e l’udito di Edipo hanno recepito è solo la “forma” comportamentale assunta dall’indovino nel suo parlare comunque; i contenuti veridici delle sue parole, pronunciate nella foga dell’ira, sono, sono, invece, sfuggiti ai sensi di Edipo: il sovrano non si è accorto delle profonde verità (inascoltabili) che gli sono state rivelate; non si è accorto che Tiresia paradossalmente ha risposto ai suoi interrogativi, proprio quando “sembrava” si rifiutasse.
Da qui anche l’ironico paradosso per cui Edipo accusa Tiresia di essere cieco non solo negli occhi, ma anche nelle orecchie e nella mente (v.371), “vedendo” nella cecità fisica dell’indovino un riflesso di quella mentale. Ma è Edipo stesso quello che “vede e non vede” in quale sciagura sia caduto; quello che “adesso vede di fatto ma poi non vedrà che ombra” (v.419); quello che “da vedente diventerà cieco”! Il tratto dell’ironia tragica e della duplicità della figura e della vicenda di Edipo, emerge particolarmente nel corso del primo episodio. Esso trova espressione nell’ambigua condizione di “xenìa” → estraneità (essere straniero) e “tùke” → fortuna (sorte) in cui dichiara di trovarsi Edipo.
Quanto all’“estraneità”, essa interessa tanto la dimensione “politica” quanto quella “privata” del sovrano di Tebe. Sul piano “politico”, egli ricorda la sua condizione di “cittadino acquisito” cioè “straniero” che ha ottenuto la cittadinanza tebana (soluzione enigma sfingico): Edipo crede di essere tale, e ciò in qualche modo lo preserva da un coinvolgimento nell’omicidio di Laio, in quanto supposto tramato per interessi politici. Ma, come predice Tiresia, il colpevole sembrerà uno “straniero immigrato” solo a parole, vale a dire solo in apparenza e sulla base di ciò che si sente dire; mentre di fatto risulterà “uno nato a Tebe” (vv. 452-453). Ancor più tragicamente ironica è la convinzione di Edipo circa la sua estraneità allo “status” famigliare del personaggio coinvolto: Laio, suo padre.
Già nel prologo aveva dichiarato una sua “distanza” rispetto alle persone per cui intraprendeva la ricerca parlandone come di “amici lontani” (v.137); ora la sua estraneità è ancor più esplicitamente dichiarata (vv. 219-220). Da questo estraneamento, per ironia, Edipo procede, progressivamente, ad un avvicinamento verso la sua vera condizione, cioè di stretta famigliarità con i personaggi coinvolti.
Estraneità / fortuna → Edipo prima a un crocicchio poi a un bivio
Infatti, dapprima prospetta la possibilità che il colpevole sia qualcuno della sua famiglia; in questo caso, qualora lui ne venga a conoscenza, si augura un tipo di vita che, di fatto, egli stesso si infliggerà: una vita miserabile, che lo escluda dal mondo delle gioie famigliari e dalla collettività politica (vv. 246-251). Poi, culmine dell’ironia tragica, a dimostrazione della sua ferma decisione di riscattare Laio, e salvare così Tebe, dichiara di voler procedere” come se si trattasse del proprio padre” (v. 264).
A questa affermazione giunge dopo aver elencato una serie di “possessi comuni” che connotano Edipo come un “quasi figlio” di Laio:
- egli ha il potere che legittimamente sarebbe toccato, appunto, ad un figlio di Laio;
- ha in comune la donna in quanto sposa, ma questa – in quanto anche madre – avvicina Edipo a Laio prima come figlio che come “amante rivale”;
- egli avrebbe avuto in comune con Laio anche i figli, se Laio non “fosse stato sfortunato nella discendenza” (vv. 261-262), cioè – secondo il pensiero fallace di Edipo – se avesse avuto almeno un figlio, il quale poi si rivelerà non essere altro che lui. E, infatti, proprio in questo Laio è stato sfortunato, non già per ciò che crede Edipo, vale a dire per una condizione di “apadìa” → mancanza di prole.
Anche la visione che Edipo ha della “tùke” (sorte-fortuna) sua e degli altri, è ulteriore espressione dell’ambiguità di cui è vittima e della duplicità di cui è portatore. Come appena segnalato, Edipo crede motivo di sfortuna per Laio la mancanza di prole: di fatto, l’aver generato è stato causa di sfortuna non solo per Laio, bensì anche per Edipo medesimo. Proprio questa “sfortuna nella discendenza” ha fatto sì che si abbattesse su Laio il destino (“tùke”) tanto temuto (v.263).
Ancora, Edipo crede che la “tùke” lo abbia portato a Tebe con “fortunata rotta” (v. 423), avendo decretato lì la sua “fortuna”, giacché gli ha consentito, per aver liberato la città dal flagello della Sfinge, di conquistare “grande autorità” e di approdare ad un matrimonio felice. Ma, come rivela Tiresia, è proprio questa “tùke” a decretare la sua rovina (v.442) e le nozze cui è “fortunosamente” approdato si riveleranno un”approdo senza ormeggi” (vv. 422-423) . Alla fine scopriremo che quella stessa “tùke” che, secondo Edipo, gli ha donato la vita, questa gliela toglierà (vv. 1080-1081)…Il vanto di definirsi “figlio della Tùke” si trasformerà in una terribile catastrofe.
L’imbarazzo del Coro: il dubbio che corrode
Le rivelazioni di Tiresia sul conto di Edipo hanno turbato l’animo del Coro: esso non può né credere né rifiutare le parole dell’indovino. Non vi è alcuna prova che le avvalori, ma, d’altra parte, si tratta pur sempre delle parole di un interprete della volontà e sapienza divina, quale è stata rivelata nel responso portato da Delfi. E, intanto, urge la necessità di trovare il colpevole. Il Coro viene a trovarsi, così, in una situazione di “impasse”, cioè di “aporìa” → (via senza uscita): si sente senza vie d’uscita di fronte al dilemma tra l’accettazione dei comandi di Apollo, lo “shock” delle rivelazioni di Tiresia e l’affetto fiducioso per Edipo.
Per quanto forte sia la fiducia nei riguardi del sovrano, tuttavia si dichiara “sospeso sulle ali dell’attesa”: quella, probabilmente, di vedere o meno rispondenti a verità le parole “velenose” di Tiresia. Il non saper cosa dire o fare (v.485), cioè l’imbarazzo del Coro, trova espressione in questo suo atteggiamento oscillante per cui, se da un lato ribadisce, per ben due volte (vv. 487-496 e 506-512) il suo parteggiare per Edipo, dall’altro, però, sembra lasiare aperta la possibilità di “passare” dalla parte dell’accusatore, cioè di Tiresia (vv. 485-486 e 504-505). Il Coro, infatti, non esprime un rifiuto secco e incondizionato delle insinuazioni dell’indovino; chiede una prova a tutti evidente, come quella di cui, al momento, dispone a favore di Edipo.
Operando una distinzione fra la sapienza degli Dei e la mediazione umana di quella sapienza, cioè tra il dio e il profeta suo ministro (vv. 498-506), il Coro trova una temporanea risposta alle sue perplessità e tenta, così, di uscire dalla situazione di “aporìa”: in tal modo, infatti, giustifica la sua remora a credere incondizionatamente a Tiresia, la cui carica presuppone un’autorità e credibilità riconosciute da tutti. Zeus e Apollo – ammette il Coro – certamente conoscono a fondo le vicende degli uomini e, in quanto Dei, non possono fallire; Tiresia che, in quanto indovino, è mediatore presso gli uomini di quella conoscenza divina, è pur sempre un uomo e come tale può fallire. Avrebbe fallito, ad esempio, con la Sfinge, proprio nell’occasione in cui tutti hanno avuto modo di sperimentare direttamente, con i loro occhi, la sapienza di Edipo (vv. 506-510).
Questa è una prova concreta del fatto che non esiste un criterio oggettivo per asserire la superiorità in assoluto e, quindi, l’infallibilità del sapere dell’indovino rispetto a quella degli altri uomini, ivi compreso Edipo e il Coro, che ora si trova a dover scegliere. Questo è il modo di ragionare del Coro che, come Edipo, si avvale di un sistema di pensiero logico-deduttivo basato sulla realtà “fenomenica”; questa la “scusa” per non credere alla verità rivelata. Per quanto dettate da un modesto raziocinio, queste osservazioni sono ancora espressione della confusione d’animo in cui si dibatte il Coro: a riguardo si può osservare che, quando il Coro parla per la prima volta di Tiresia a Edipo (primo episodio, vv. 284-285), non sembra nutrire dubbi sulla “quasi” identità di conoscenza fra l’indovino e il dio Apollo e sul possesso innato in Tiresia della “verità” (cfr. vv. 298-299); diversamente, invece, si esprime dopo le rivelazioni sconvolgenti dell’indovino (cfr. vv.500-501).
Parrebbe, dunque, essere revocata in dubbio l’abissale differenza tra infallibilità del sapere divino e fallibilità di quello umano!! Ma Sofocle intende creare lo spazio scenico per la narrazione e rappresentazione del doloroso cammino conoscitivo perseguito da Edipo…che non doveva sapere passivamente da altri… bensì trovare da sé, cercando impavidamente, l’orrenda verità delle sue colpe involontarie, ma brutalmente reali! Il Coro diviene così la proiezione psicologica del “divided self” edipico… ben oltre il noto complesso elaborato da Freud.
Creonte ed Edipo: evidenza logica e cecità ottusa a confronto
Al confronto tra il sapere divino di Tiresia e il sapere umano di Edipo, che ha luogo nel primo episodio, corrisponde, nel secondo episodio, il confronto tra due forme diverse del medesimo sapere, il sapere umano, attraverso le figure di Creonte (fratello di Giocasta e cognato del sovrano) ed Edipo. Entrambi perseguono la conoscenza con la stessa “arma”: il potere della logica, che “fa sembrare” evidente la veridicità delle affermazioni di ciascuno dei due antagonisti, senza, però, procurarne prove oggettive. Infatti, il confronto fra i due ha il duplice proposito di:
- provare, dell’uno, l’innocenza dall’accusa di cospirazione;
- esaminare, dell’altro, la fondatezza dell’accusa che muove.
Con il ragionamento giungono a conclusioni opposte, ma né l’uno produce tangibili prove della propria innocenza, né l’altro dispone di oggettivi indizi che provino la colpevolezza di Creonte. Edipo procede per gradi a dimostrare che:
- è stato Creonte a consigliarlo di convocare Tiresia per avere spiegazioni sul responso delfico e, per tutta risposta, Tiresia lo ha accusato dell’assassinio di Laio;
- Tiresia, già al tempo della morte di Laio, esercitava l’arte divinatoria, ma nulla, allora, egli aveva detto riguardi Edipo che gettasse luce su quell’oscuro incidente.
Da tutto ciò non si può che trarre logicamente una sola conclusione: le parole di Tiresia sono menzogne ispirate da Creonte che, volendo assumere il controllo su Tebe, non poteva approfittare di un momento migliore di quello presente, mentre la città era in preda a sofferenza e scontento. Questo era anche il momento più adatto a suscitare disordini, screditando così la figura di Edipo mediante la migliore “arma” che potesse allora avere efficacia: l’autorità di un indovino.
Tale è l’argomentazone di Edipo, fondata su un giudizio formulato sulla base di ragionamenti; priva di prove, essa si rivela, agli occhi di Creonte e del Coro, un’argomentazione del tutto indimostrata, quindi soggettiva: deriva, infatti, dalla realtà “fenomenica” a cui il sovrano “ostinatamente” si riferisce. Altrettanto priva di prove oggettive è l’argomentazione che Creonte porta a difesa della propria innocenza. Eppure questa appare più convincente, sì da determinare una lieve “inclinazione” del Coro a favore di Creonte e condurre Edipo ad una “impasse”. Anche Creonte procede per gradi affermando che:
- Edipo ha sposato sua sorella Giocasta con la quale condivide il regno;
- questa, per il suo “status” famigliare, può ottenere dal Re tutto ciò che desidera;
- Creonte, in quanto fratello di Giocasta, può anch’egli ottenere da lei quanto desidera.
Di qui la logica conclusione: nessun uomo di buon senso (vv. 589 e 600) preferirebbe un potere pieno di ansie e timori, proprio del sovrano, ad una condizione tranquilla e sicura, tipica di chi partecipa senza responsabilità ad un potere assoluto. Tale è la condizione di Creonte, che si reputa assennato e ragionevole. E, tale appare, peraltro, in contrasto con l’ottusa ostinazione in cui persevera Edipo che vaga nell’oscurità dei sotterranei del suo animo senza pace… Per rafforzare la sua argomentazione, Creonte invita Edipo ad appurare la veridicità del responso da lui riferito, recandosi di persona a Delfi: è un invito a cercare un indizio oggettivo su cui fondare le prove al momento indimostrate.
Ma Edipo non accoglie l’invito, continua a rimanere ottusamente “cieco”, a rifiutarsi di “vedere” rettamente. Trova qui conferma, potremmo dire, la fondatezza dell’accusa di cecità che Tiresia in più di un’occasione aveva rivolto a Edipo (vv. 413; 419; 454). Il sovrano resta, dunque, convinto della colpevolezza di Creonte, e lo lascerà andare “non riconosciuto” nella sua lealtà di amico e parente. Apparentemente incomprensibile, la cieca ostinazione è l’unica arma di difesa di cui Edipo dispone per se stesso: “vedere” e “riconoscere” Creonte innocente significherebbe accogliere su di sé le accuse mossegli da Tiresia.
Tra moglie e marito… Gocasta / Edipo: due modalità conoscitive nel recupero del passato
L’arrivo in scena di Giocasta segna una svolta nella dinamica della vicenda tragica. Le parole della Regina diventano involontariamente la causa scatenante, per Edipo, della trasformazione della sua ricerca dell’assassino di Laio in un’indagine di recupero del proprio passato! Volendo tranquillizzare Edipo circa le accuse infamanti di Tiresia, Giocasta cerca di convincerlo che i responsi dati da un indovino non necessariamente sono veritieri, né immancabilmente si realizzano: certo non Apollo, ma i suoi ministri possono fallire.
Questa non è un’opinione soggettiva e infondata; al contrario di quanto accaduto a Edipo e Creonte nel loro infuocato diverbio. Da un’esperienza particolare, la donna ricava una formulazione generale: «Nessuno al mondo è veramente in possesso dell’arte divinatoria» (vv. 707-709). La sua, però, è una conclusione tratta da “sémeia” → prove non verificate che, di fatto, si riveleranno errate. Infatti, la discrepanza tra il responso sul modo in cui Laio avrebbe dovuto morire e l’effettivo svolgersi dell’evento (il primo “incidente stradale” della storia) si fonda su di una conoscenza indiretta, ricavata “per sentito dire”; ; trattasi, dunque, ancora, di una forma di conoscenza che afferisce al mondo della “dòxa” (opinione congetturale), a cui finora s’è attenuto Edipo stesso, rimanendo così all’oscuro del reale. Si avverte subito una notevole differenza tra moglie e marito nel processo conoscitivo.
Giocasta pare essersi accontetata del resoconto di un testimone; ha creduto a quanto riferitole, senza ulteriormente indagare (del resto si era liberata di un consorte “ingombrante”). Né, pare, indagherebbe più a fondo, come risulta poco dopo dalla sua reticenza a capire l’importanza, per Edipo, di un confronto diretto con un testimone dell’incidente occorso a Laio. Leggerezza e indifferenza verso una conoscenza approfondita albergano in Giocasta anche a riguardo di un altro particolare emerso nella narrazione di vicende del passato: l’esposizione (sul monte Citerone) del figlio, per mano del quale Laio, secondo l’oracolo, “doveva” essere ucciso. Ancora “per sentito dire” Giocasta è venuta a conoscenza della sua morte, che sarebbe avvenuta prima di quella del marito Laio: anche questa prova dimostrerebbe la “fallibilità” dei responsi oracolari.
Diverso il “modus operandi” di Edipo, che dà una svolta all’indagine partendo da un inquietante dettaglio del racconto dell’incidente mortale di Laio riferito da Giocasta: “gli è sembrato”, infatti, che la donna abbia parlato di un crocicchio (vv. 729-730). Il particolare è di tale rilevanza che Edipo vuile appurarlo senza accontentarsi, come Giocasta, della prima cosa sentita.
Per passare dal “ciò che sembra” al “ciò che è”, Edipo procede intanto ad uno scrupoloso interrogatorio in funzione di una ricostruzione “storica” dell’evento. Definito con precisione il luogo, sono richiesti e chiariti il tempo, le sembianze della vittima (cioè Laio), il numero delle persone coinvolte. A questo punto il quadro parrebbe completo in tutti i suoi particolari, ma Edipo non ritiene ancora conclusa la sua indagine. Desidera personalmente verificare le notizie risalendo alla sua fonte, vale a dire a quell’unico testimone che avrebbe fatto circolare “la voce”, riferita da Giocasta. Invita, quindi, la regina a mandarlo a chiamare con sollecitudine: nonostante il timore ansioso che ormai serpeggia in lui, egli vuole conoscere!
La via di conoscenza che d’ora in poi persegue non sarà più quella “per congettura”, fondata, cioè, sui dati che le facoltà percettive colgono dalla superficie della realtà; ora Edipo vuole andare a fondo delle cose seguendo un rigoroso metodo scientifico: quello “autoptico”. D’ora in avanti, il re vorrà informarsi personalmente, con la maggior esattezza possibile, da chi è stato testimone oculare, ed esaminare, con occhio critico, le informazioni così ottenute alla luce di altre possibili testimonianze, compresa la propria. Le certezze di Edipo cominciano a traballare… Il veleno inoculato dalle parole di Tiresia inizia ad attraversarlo… Ha capito che la nuova modalità indagativa lo condurrà a recuperare un passato che l’idifferentismo etico di Giocasta ha bandito e che non appartiene ad “amici lontani”, bensì a se stesso!!
Le numerose coincidenze tra l’incidente di Laio, come raccontato da Giocasta, e quello a lui ocorso sulla strada per Tebe – qui rievocato – suscitano in Edipo il timore graffiante di avere con Laio un passato tristemente comune. Se i dati riferiti dalla donna verranno confermati dal confronto diretto con il testimone, Edipo saprà di non avere scampo! Il rigore conoscitivo che intende mettere in atto, se da un lato lo fa tremare dall’altro lo attanaglia creando le condizioni ineludibili della sua graduale e cosciente trasformazione da “cacciatore” dell’assassino di Laio in un uomo alla ricerca della sua vera, ancorché drammatica, identità.
I pericoli del voler conoscere sé stessi… Ruolo dell’ironia tragica: Edipo scende verso il mondo infero
In particolare nella scena con Giocasta, la peculiarità della cosiddetta ironia tragica raggiunge punte di estrema evidenza: esaminiamone i momenti più salienti. L’intero racconto dell’incidente occorso a Laio, riferito da Giocasta con l’intento di porre fine all’angoscia di cui è preda Edipo, per ironia tragica sortisce l’effetto diametralmente opposto: la menzione dell’incrocio di tre strade (il famoso crocicchio) come luogo dell’incidente, desta infatti nella memoria del sovrano quell’episodio del suo passato in cui si era reso responsabile di un assassinio simile a quello di cui era rimasto vittima Laio.
Questo episodio non era minimamente affiorato alla coscienza di Edipo con le parole di Tiresia, pur esplicite quando accusava il Nostro di aver ucciso un uomo. . Dunque, proprio la narrazione “distaccata” della moglie (di entrambi!!), mirata a tranquillizzare Edipo, per ironia, lo fa precipitare in un abisso di ansia incontrollata e smarrimento (vv. 726-727). Man mano va precisandosi la sua conoscenza dei singoli dettagli della vicenda, aumenta il timore pervasivo di aver individuato la giusta traccia: quella che porta a scoprire in sé, prima cacciatore, la preda.
Di qui in poi, Edipo è catturato dal dubbio inquietante che Tiresia, pur cieco, abbia visto meglio di lui. Quindi, ciò che avrebbe dovuto scagionarlo dalle accuse dell’indovino, invece lo inchioda ad esse. Una non minor punta d’ironia si può cogliere nella descrizione della figura di Laio fornita da Giocasta: «Era alto, coi capelli bianchi da poco, non molto diverso dal tuo aspetto» (vv. 742-743). Non sa quanto vicina sia alla verità: la somiglianza non è certo fortuita, è quella naturale che sussiste fra padre e figlio. Giocasta ed Edipo ancora non se ne rendono conto, ma la battuta, con la sua ironia, non sfugge certo al pubblico! Dalla descrizione Edipo trae ulteriore conferma dei propri sospetti, in quanto l’età e la statura corrispondono a quelle dell’uomo da lui ucciso: nulla di più (per il momento).
Ulteriormente “ironico”, dunque, il sospetto che così insorge circa l’identità fra Laio e l’uomo ucciso da Edipo: al sovrano sfugge la “tragedia” di tale identità. Una velata ironia tragica è nell’espressione anfibologica concernente il destino che spetta a Edipo e a suo padre, secondo il racconto che Edipo qui riferisce circa il suo giovanile pellegrinaggio a Delfi e la sua richiesta ad Apollo di informazioni sui propri genitori. Apollo avrebbe, tra le altre cose, risposto che egli sarebbe divenuto assassino del padre “che lo aveva generato” (v.793). Sembra quasi che il dio, così dicendo, voglia fare una distinzione tra il padre adottivo, Polibo, e quello biologico, Laio.
Una simile espressione ambigua era stata già pronunciata da Tiresia: «Noi siamo tali, come a te sembra, folli, ma per i genitori, quelli che ti hanno generato, assennati» (vv. 435-436). Come allora, anche adesso Edipo ancora non comprende; il pubblico sì. Infine, tra le diverse manifestazioni di ironia tragica di questo episodio, ne ricordiamo ancora una particolarmente sottile: l’espressa convinzione di Edipo circa un’evidenza dei fatti che (paradossalmente) non sono per lui ancora “del tutto evidenti”, ma “appaiono” soltanto tali. Dopo aver appreso i particolari dell’incidente che suffragano i suoi sospetti, Edipo così esclama: «Ahimè, tutto è chiaro» (v. 756).
Ma, quella che Edipo crede ormai di possedere, è una conoscenza ancora parziale: risulterebbe evidente, infatti, ai suoi occhi di essere l’assassino di Laio, e quindi il contaminatore di Tebe, ma non l’assassino di suo padre! A lui resta ancora del tutto oscura la portata del delitto (vv. 846-847); sicché non sa quanto si avvicini alla infamante verità nel momento in cui esprime il timore di “contaminare” con le sue mani i “letti nuziali” di Laio (vv. 821-822).
Edipo: “La verità non rende liberi”! Ritorno all’infanzia con “registi” reticenti
Nel prologo della tragedia, come ricorderete, i supplici Tebani chiedono a Edipo, il sovrano generoso e premuroso (li aveva salvati dalla Sfinge) un rimedio contro l’epidemia di peste, morbo letale che pare non finire mai nonostante le innumerevoli promesse dei sacerdoti del dio. Costoro depositari di un sapere superiore temono una rivolta che li privi del potere. Nel frattempo si attende l’arrivo di Creonte con la risposta dell’oracolo di Apollo delfico: e il responso sarà quello di cercare l’uccisore di Laio!
Edipo che, con clamorosa ironia tragica, si ritiene “Xénos” (nel duplice senso di “straniero” ed “estraneo” a quei discorsi e di conseguenza ai fatti, promette che farà tutto il possibile per risolvere il caso: egli vuole conoscere, e s’incammina sulla via “omertosa” che lo condurrà (lui il grande solutore di enigmi) alla tremenda verità! Ha saputo che il vecchio pastore di Laio, unico testimone oculare dell’uccisione del precedente re, sopravvissuto all’eccidio, sa. Edipo convince Giocasta (ancora ambigua e incerta) a convocarlo al più presto.
A questo punto, ha luogo una scena piuttosto trascurata e da me ritenuta fondamentale: appare sulla scena Giocasta, che porta incensi, corone e prega! Intanto è giunto un messo da Corinto (la città dei supposti genitori di Edipo e ivi regnanti [Polibo e Merope]). Giocasta conosce il pastore (gli ha affidato il piccolo avuto da Laio in quella notte “ubriaca”, a che lo esponesse sul monte Citerone per farlo morire ed evitare così il vaticinio maledetto di Pelope padre del giovane Crisippo violentato e abusato da Laio) ma non può sapere della conoscenza nata sul monte tra il pastore e il messo corinzio! Perché allora Giocasta che non crede né a divinità né a oracoli prega? Per chi sono incensi e corone? Se il pastore la riconosce e ricorda quel bimbo affidatogli da lei?
Ecco la rilevanza scenografica esteriore della regina in preghiera: spingere sul pedale dell’omertà… e del silenzio! E quella interiore? Sono nati anche in lei dei timori sul ruolo di Edipo, e quell’apparato va letto anche come la speranza che tutto resti sepolto e sa che la divinità si bea davanti alle preghiere…Edipo vede tutto questo ma continua a pensare di essere “figlio della sorte”, anche perché non può (o teme ) pensare ad un groviglio così rovinoso di riconoscimenti in “miniatura”.
Edipo ha voluto bene a Merope (per anni da lui ritenuta sua madre) ma Giocasta è la moglie da cui ha avuto due maschi (Eteocle-Polinice) e due femmine (Antigone-Ismene)… Egli è ancora, crede, lontano dal pensarsi sovvertitore della struttura parentale, eppure nella convinzione che la verità renda liberi, lui, abituato per il suo ruolo di re a rapporti di alto lignaggio, si troverà di fronte un pastore e un messo reticenti che sanno quello che lacera l’animo di un re “straniero”. Il freudiano “complesso” di Edipo crolla all’interno di una interpretazione che trasloca contenuti legati alle strutture dell’immaginario del V° secolo nella nebbiosa Vienna di fine 800’… Edipo non ha ucciso Laio per godere in solitaria di una madre a lui (per ora) ignota. Inconsapevolmente moglie!
Il Re torna bambino… “Melange” tragico fra colpa e innocenza. Edipo esce dal bivio
Il pastore e il messo corinzio si riconoscono dopo molti anni: il bimbo a lui affidato per farlo morire passa nelle mani del servo di Corinto e portato ai due regnanti della città che lo adotteranno come figlio. Edipo scivola verso la sua travagliata infanzia e costringe minaccioso i due a non lesinare parole e a dire chiaramente ciò che sanno. Da un atto compassionevole viene inesorabilmente sancita la vera identità del re. Il solutore di enigmi, alla fine, ha risolto anche questo pur straziato dal dolore: adesso sa che quel bambino era lui… e quindi l’oracolo di Apollo si è realizzato nonostante la sua vita “on the road” (ha ucciso il padre Laio ed è entrato nel letto materno come marito →parricidio e incesto lo hanno, seppur involontariamente, maculato definitivamente… Ciò gli rende manifesto che all’uomo non è concesso sfuggire al destino ordito da un dio potente.
Siamo di fronte ad un incomprensibile vortice di sciagure…Elemento costante, quando non proprio presupposto necessario, di questo essere, ad un tempo, “agens” e “patiens” è la totale in-coscienza in cui Edipo è vissuto, umano burattino; infatti nel finale della tragedia dirà rivolto alle figlie (v.1485): «Senza sapere, senza capire nulla, mi sono rivelato vostro padre […]». Tale inconsapevolezza è prova ai nostri occhi, ma non a quelli dei suoi contemporanei (per i quali una colpa resta tale comunque!) della sua innocenza rispetto ai misfatti di cui s’è macchiato; un’innocenza a tal punto fondata che Il nostro eroe potrà dire con sconcertante “attualità”: «Le mie azioni io non le ho decise, bensì le ho patite» (cfr. “Edipo a Colono”, vv. 266-2679).
Il doppio della tragedia, come due piatti di una bilancia allineati su di un piano orizzontale, è in perfetto equilibrio tra due versioni riguardanti essenzialmente il tema del sapere / non-sapere: una versione, quella tradizionale del “non-sapere” dei personaggi, viene esposta in piena luce, mentre l’altra, quella del “sapere” dei personaggi, è nascosta in piena luce: Però, delle due versioni della tragedia, Sofocle ha l’accortezza di mantenere in evidenza la versione del non-sapere, vale a dire quella più edificante che, nella notte dell’uomo, si rivela anche la più rassicurante.
Ebbene nostro compito, se vogliamo essere lettori non “pacificati”, è quello essere palombari del profondo e mostrare quel che viene nascosto “in piena luce”. Sulla base di queste considerazioni l’Edipo Re va letto tenendo presente il seguente “motto”: “ TUTTI I PERSONAGGI DELLA TRAGEDIA SANNO MOLTO; MOLTI SANNO TUTTO; TUTTI FINGONO DI NON SAPERE”. Questo conferma l’importanza nell’antica Grecia dell’“ònar” → sogno, delle ambiguità del “lògos” → parola “ragionata” e dello “pseudos” → menzogna / finzione. Giocasta li mobiliterà tutti e tre prima del finale bagno di sangue.
Scacco alla Regina! Uno sguardo dal buio… Ascoltare e vedere
Mentre Edipo è a colloquio concitato con il pastore e il messo corinzio, indotti minacciosamente a rivelare la verità definitiva (non essere il sovrano di Tebe figlio di chi crede [Polibo-Merope] bensì di Laio e Giocasta, con le terribili conseguenze che ciò comporta, Edipo ha chiaro ormai dove lo abbia spinto la sua volontà di sapere…il marcio e l’impuro che tengono in scacco la città sono in lui… Egli è il “paradeigma” (exemplum) dove la sua parola serviva solo a ricomporre un mosaico, quello che i Greci chiamavano “symbolon”, designazione ultima di chi si ritrova “tra le mani” il frammento mancante…Ogni storia della sua vita è la parte mancante di un’altra! La “tyche” → sorte, di cui si diceva figlio trasporta lui esule da Corinto sul trono di Tebe!
Dell’avventuriero-re è rimasta occultata (fino ad ora) la figura criminale e incestuosa. Il suo ruolo rassicurante appare ora emblema negativo (che gli studiosi anglo-americani definiscono con termine pregnante “pollution”!), ed è proprio questo statuto di impurità a spargersi tra il popolo (epi- demìa). Si rende conto, quasi folle, di dover sparire, il suo destino tornerà ad essere ancora “on the road” (se lo lasceranno in vita).
E Giocasta? La regina che non credeva agli oracoli? Colei che fin dall’inizio gli diceva che bisognava vivere alla giornata (“come viene”), che gli ha detto con il suo laicismo antionirico essere frequente “sognare di andare a letto con la propria madre”, sapeva o paventava mostruosità irragionevoli? La grandezza del genio di Sofocle crea una donna premurosa verso le ansie maritali quanto ambigua con i suoi inviti a non complicarsi la vita. Anche lei non poteva sfuggire alla polisemia dei “nomi parlanti”! Omero la chiama Epicasta (la “brillante”), Sofocle, cambiandole nome, non insegue una “varietas” nomenclatoria, bensì, collegandolo al termine “ìon” → il colore viola porpora come il sangue (“aìma”) la chiama Gio-casta, vale a dire: colei che brilla di un flusso di luce ombrosa, porporina.
Una figura chiaroscurale a indicare un groviglio emozionale cui sa porre un freno, tranne quando comprende dal suo “buio” che ormai il dramma celato e “non voluto” è divenuto chiaro e se ne fugge disperata nella stanza nuziale, con brutali imprecazioni, dove Edipo smanioso, tardivamente la raggiugerà trovandola impiccata!! Deposto il corpo al suolo, strappate dalle vesti di lei le fibbie d’oro, il sovrano colpirà con violenza le sue pupille inabissandosi in una totale oscurità.
Il messaggero incaricato di riferire quanto accaduto all’interno del palazzo, ne esce preannunciando che il Coro avrà da ascoltare e vedere terribili sciagure… Ecco cosa resta: ascoltare le parole “sanguinanti” di Edipo e vedere quelle orbite nuotanti nel sangue in una delle scene più potenti e maestose di tutto il teatro non solo antico! In tale duplice azione (ascolto-vista) cercheremo di entrare a coglierne la simbolica che lo guida tra antropologia e analisi delle dinamiche profonde.
La scelta di una punizione: l’autoaccecamento. Edipo e l’epilogo di un destino… ovvero fare i conti con l’inconscio
Allarghiamo il campo della nostra interpretazione partendo da approcci psicoanalitici e antropologici che colgono in tale forma autopunitiva un significato simbolico ben specifico, inerente, in particolare, ad una delle due colpe commesse dal sovrano: l’incesto con la madre. Già nella mitologia antica gli occhi risultano connessi con l’eros e la sessualità, in particolare con gli organi genitali maschili [Numerose, ad esempio, sono le rappresentazioni di falli con occhi nei vasi greci. Stesso simbolismo – come già illustrato – viene assunto dai piedi. Interessante osservare che i due difetti fisici – ai piedi e agli occhi – in relazione anche alla trasgressione sessuale, talvolta nei miti sono coesistenti – come nel caso di Edipo – oppure l’uno risulta variante dell’altro – come, ad esempio, nel caso di Licurgo: secondo la versione di Igino resta zoppo, secondo quella seguita nell’Iliade, è colpito invece da cecità].
Nella moderna psicoanalisi il simbolismo dell’occhio gioca un ruolo non irrilevante. Seguendo tale prospettiva, l’accecamento è una sorta di “castrazione” simbolica, degna punizione dei delitti sessuali, come risulta da alcuni miti greci. Così, ad esempio, Fenice, eroe greco protagonista della nota ambasceria ad Achille, nel libro IX dell’Iliade, per aver dormito con la concubina del padre, commettendo un “quasi-incesto”, viene punito ora con la condanna ad essere sterile (secondo la versione del mito in Omero, “Iliade” IX, 449-457), ora con l’accecamento (secondo la variante più comune, accolta da Aristofane, “Acarnesi”, 421, e da Apollodoro, “Biblioteca”, 3, 13, 8).
Accecamento e sterilità sono, nel mito, punizioni equivalenti del medesimo delitto sessuale e tale equivalenza è resa possibile, appunto, dalla connessione simbolica fra occhi e genitali. Edipo, pertanto, punendo i propri occhi, punisce l’organo colpevole della sua “trasgressione”(incesto) nei riguardi della madre! Ancora: si potrebbe sostenere che, in riferimento alle due colpe di Edipo (parricidio – incesto), vi sia una relazione specifica tra le due mutilazioni che il Nostro – in tempi diversi – ha subito, cioè quella ai piedi e quella agli occhi: con l’omicidio di Laio, Edipo ha preso il posto del padre nella vita sociale e privata della madre, divenendone sposo; per cui la prima mutilazione (quella ai piedi) era intesa a impedire il verificarsi di tali delitti (inibendo il movimento); la seconda (quella agli occhi), a punirli!
Conclusioni “provvisorie”
Edipo e Giocasta hanno tentato di sfuggire a ciò che gli dei avevano loro predetto! Ma le parole che devono ascoltare dai testimoni oculari sono le stesse già da quegli esseri supremi pronunciate; sono obbligati a vedere quello che gli dei avevano già visto nelle loro vite e quanto più non le vorrebbero ascoltare più le vedono realizzate…Il bambino maledetto divenuto uomo e re volendo vedere da sé, ha finito col vedersi nella testimonianza visiva degli altri.
Si è visto come colui che non avrebbe mai dovuto essere visto, che non può più sopportare lo sguardo di nessuno, che non potrà mai più guardare qualcuno. Questo sguardo sovrano, strumento ed emblema di un sapere superiore, sordo agli ordini e ai messaggi divini, deve spegnersi. Eccolo quindi condannato nel suo “buio” ad ascoltare, a sentire voci senza saperne la provenienza, ad obbedire a capo chino.
Il grande solutore di enigmi si trova così di fronte all’enigma più inquietante e irrisolvibile: lui stesso e la sua vita! Dal messo entrato a palazzo il pubblico apprende l’orribile punizione inflitta da Edipo a se stesso, una volta scoperta la verità e trovata morta la moglie-madre! Gli occhi, strumento conoscitivo per eccellenza, in cui il sovrano aveva confidato e di cui s’era servito, lo hanno tradito rivelando falsa la luce che egli vedeva: Edipo si acceca per non vederla più. Acquisita la verità, conquistata la luce interiore, egli si acceca per continuare a vivere non più nell’oscura cecità spirituale, in cui dimorava pur essendo in grado di “vedere”, bensì nella certa cecità fisica, avvolto come da uno scudo contro la mendace luminosità del giorno.
Ora, pur cieco, vede chiaramente la sua colpa; l’occhio della coscienza resterà sempre “aperto” sull’errore che l’occhio fisico ha commesso non distinguendo la natura autentica delle realtà ad esso sottoposte; la sua è quasi una punizione “per contrappasso”. Accecandosi, Edipo si condanna a vivere alla luce della colpa; nel patimento consisterà il riscatto tragico dall’errore…
Eppure in quella desolante pena la sua figura si erge grandiosa e come dirà Nietzsche nei frammenti sparsi: «Per quanto ripugnanti le tue colpe, Edipo, i lettori aperti alla conoscenza, attraverseranno il guado e urleranno la loro protesta verso gli dei e il destino che c’inchioda…».
Prof. Gardenio Granata
10 Dicembre 2020 – 1 Aprile 2021
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