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David Hume [1711-1776]

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Saggio filosofico su David Hume

Dimostrare l’esistenza di dio e la natura dei suoi attributi è un superbo obiettivo che, nel corso dei secoli, ha tormentato le menti di moltissimi autorevoli pensatori, i quali si sono ingegnati per trovare argomenti che fossero stringenti e atti, se non a convertire, quantomeno a far riflettere anche gli atei più irriducibili. Data la natura viscerale di ogni credenza che trascende la sfera razionale, dio e la religione, forse più di qualsiasi altro argomento, hanno ispirato diatribe e controversie accesissime, anche quando si trattava, almeno nelle intenzioni, di fondarli su considerazioni filosofiche che prescindessero dall’autorità della rivelazione. A maggior ragione, in società in cui l’influenza della religione si faceva pesantemente sentire e, nei casi peggiori, mieteva vittime, quelle poche opere che osavano sfidare i pregiudizi tradizionali e mettere in discussione inveterate certezze teologiche, erano destinate a scatenare il putiferio e ad attirare l’odio sui loro autori.

David Hume [1711-1776]Quest’odio era tanto più violento e motivato quanto più l’opera in questione riusciva a far vacillare i presupposti religiosi; è questo il caso, ad esempio, del Dialogo sopra i massimi sistemi di Galileo (1632), e del De l’infinito universo e mondi di Giordano Bruno (1584), o del Trattato teologico politico di Spinoza (1670). È questo il caso anche dei Dialoghi sulla religione naturale di David Hume (1751).

Il motivo di tanta ostilità del clero inglese contro “le bon David”, al punto da arrivare a reclamarne la scomunica e ad avversarne la carriera accademica, ben si comprende: nei Dialoghi, le prove tradizionali dell’esistenza di dio vengono severamente rilette e discusse alla luce dei criteri sperimentali dell’epistemologia humiana; essendo tali criteri particolarmente rigorosi e non consentendo alcuna attendibilità a tutte quelle inferenze che pretendono di travalicare il mondo dell’esperienza, le conclusioni non possono che rivelarsi devastanti nei confronti di tali prove.

Un esempio emblematico dell’inconciliabilità della mentalità metafisica con la mentalità scettica e sperimentale di Hume è dato dal seguente passo:

“Comincerò con l’osservare che c’è una evidente assurdità nella pretesa di dimostrare una materia di fatto, o provarla con un argomento a priori. Nulla è dimostrabile, a meno che il contrario non implichi contraddizione. Qualunque cosa concepiamo esistente possiamo anche concepirla come non esistente. Non c’è Essere, quindi, la cui non esistenza implichi contraddizione. Di conseguenza non c’è un Essere la cui esistenza sia dimostrabile”. (D., 9).

Questa argomentazione non intende approdare ad uno scetticismo integrale (tra l’altro ampiamente criticato nel primo libro del Trattato sull’intelletto umano e nella parte prima dei Dialoghi) ma mostrare come nelle questioni concrete di esistenza le considerazioni astratte della logica ed il principio di reductio ad absurdum non contino nulla, dal momento che la logica, a differenza delle scienze sperimentali, si occupa di puri concetti, non di cose reali. Nel passo di sopra viene criticata la prova a priori, che Hume presenta sotto forma di ibrido con la prova cosmologica, nella sua formulazione leibniziana. La prova ontologica, come è noto, muove dal concetto di dio come “Essere perfettissimo” per dedurne l’esistenza; il presupposto su cui poggia, che l’esistenza sia una perfezione aggiuntiva, è chiaramente fallace in quanto il concetto in questione (come qualsiasi altro concetto) rimane immutato sia che abbia, sia che non abbia corrispondenza con la realtà. Con tale critica Hume anticipa la refutazione che Kant farà dell’argomento nella Critica della ragion pura.

Per quanto riguarda la prova cosmologica, Hume osserva semplicemente che se si dovesse prendere sul serio il suo presupposto di partenza, ovvero che “tutto ciò che esiste deve avere una causa” (D., 9), allora diventerebbe impossibile fermarsi in qualche punto nella serie, perché ogni nuovo evento rimanderebbe ad una causa ulteriore. La serie, dunque, verrebbe ad essere infinita.

Ma com’è possibile applicare il concetto di causa, il quale implica una priorità temporale, ad una serie infinita di eventi, e quindi senza inizio? Anche in questo caso la critica humiana si rivela decisiva e molto dovrà ad essa la successiva critica kantiana.

I Dialoghi vedono come protagonisti tre personaggi, ognuno con una sua precisa posizione filosofica: Demea è l’ortodosso intransigente, zelante difensore dei valori e dei dogmi religiosi, che oscilla tra misticismo fideista (parte prima e parte decima) e razionalismo leibniziano (parte nona); Filone è lo scettico iconoclasta, contestatore dei sistemi metafisici, il personaggio che forse meglio degli altri incarna il pensiero dell’autore; Cleante, infine, è il teista sperimentale, sostenitore della concezione newtoniana dell’universo e dell’argomento del disegno come l’unico possibile per dimostrare l’esistenza di dio. Contro tale argomento Filone-Hume infierisce senza riguardi dalla parte seconda alla parte ottava, esaminandolo e dissezionandolo da ogni angolatura possibile.

L’argomento, così come viene presentato da Cleante, paragona il mondo ad “una grande macchina, suddivisa in un infinito numero di macchine più piccole (…). Tutte queste diverse macchine, e anche le loro parti più minute, si adattano l’un l’altra con una accuratezza che suscita l’ammirazione di tutti coloro che le contemplano. Il preciso adeguamento dei mezzi ai fini, riscontrabile sempre in natura, somiglia esattamente, anche se di molto superiore, alle produzioni dell’inventiva, del progetto, del pensiero, della saggezza e dell’intelligenza umana” (D., 2). Sulla base di tale presunta somiglianza negli effetti, l’argomento pretende di inferire analogicamente l’esistenza di una causa universale simile all’intelligenza umana, “sebbene in possesso di facoltà più ampie, proporzionate alla grandezza dell’opera che ha realizzato” (D., 2).

Filone-Hume dà inizio al suo attacco criticando l’analogia che assimila l’universo ai prodotti dell’ingegno umano, in quanto i secondi sono troppo diversi e distanti dal primo per prestarsi a qualsiasi serio confronto. Inoltre, mentre abbiamo sempre avuto esperienza che le case, le navi, gli orologi ecc. derivano dall’azione dell’uomo, a tal punto che ogni volta che ci imbattiamo in un nuovo caso simile ai precedenti non possiamo dubitare sulla conclusione da trarne, non abbiamo mai visto, neanche una volta, il mondo al momento della sua origine.

L’epistemologia humiana nega che da un effetto si possa risalire a priori alla sua causa, e viceversa, in quanto la mera analisi astratta della loro natura non consente in alcun modo di stabilire una connessione tra i due oggetti. È solo l’indagine empirica che può rivelare la loro costante congiunzione, sulla base di un’infinità di osservazioni passate concernenti casi perfettamente simili. Nessuno ha mai visto dio all’opera mentre creava l’universo. “Si sono mai formati dei mondi sotto i vostri occhi?” (D., 2) domanda provocatoriamente Filone a Cleante, usando contro di lui il suo stesso metodo, per sottolineare lo scarto tra le sue conclusioni e quanto l’esperienza consente di asserire.

“E avete mai avuto il piacere di osservare l’intero sviluppo del fenomeno, dalla prima apparizione dell’ordine fino alla sua estinzione finale?” (D., 2). La domanda, ovviamente, è retorica. La nostra conoscenza dell’universo è troppo imperfetta e frammentaria perché si possa paragonare le sue regolarità con quelle di un orologio o di un altro manufatto. Ragionando a priori, non v’è nulla di contraddittorio nel congetturare che la materia contenga in se stessa il principio dell’ordine, esattamente come non è contraddittorio congetturare che tale principio risieda solo nella mente. Con la stessa legittimità con ci chiediamo il perché dell’ordine nella materia potremmo chiederci il perché dell’ordine nella mente, essendo le due ipotesi ugualmente possibili.

Come se non bastasse Hume, per voce del “mistico” Demea, accusa l’argomento di volgare antropomorfismo, dal momento che degrada dio allo stesso livello degli uomini. Infatti, portando alle estreme conseguenze la sua logica, non ci si può nascondere che: se (premessa maggiore) v’è somiglianza tra gli effetti naturali e quelli umani, e se (premessa minore) effetti simili implicano cause simili, allora (conclusione inevitabile) l’autore della natura dovrà essere, in tutto e per tutto, simile ad un uomo.

Contro le ridicole conseguenze che si avrebbero in teologia accettando seriamente tale argomento, Filone-Hume insiste per tutta la parte quinta, prodigandosi con esempi di ogni tipo.

Una volta accettata la somiglianza dio/uomo, perché non dovrebbe essere estesa anche all’ambito fisico oltre che a quello mentale? Ciò sarebbe sempre coerente con l’analogia in questione. In questo caso però “la teogonia dei tempi antichi torna a riaffacciarsi presso di noi” (D., 5) e dovremmo riesumare lo stravagante pantheon di Esiodo. Perché, inoltre, limitarsi ad una sola divinità? L’analogia consentirebbe anche l’ipotesi di una moltitudine di divinità finite, accomunate e tenute insieme da un medesimo scopo. Non solo. Tale ipotesi politeistica sarebbe addirittura ancora più adeguata all’analogia di Cleante; gli uomini non si riuniscono molto spesso per realizzare un progetto comune?

Demea, per parte sua, si dimostra “humiano” nella parte terza quando respinge indignato l’assimilazione della mente divina alla mente umana, sostenendo la concezione della mente-insieme, ovvero della mente come mero “composto” di percezioni, sentimenti, ragione e volizioni, di contro alla mente-sostanza di Cartesio, entità occulta alla quale “ineriscono” le qualità particolari. Un dio inteso alla stessa stregua della mente umana perderebbe così due attributi fondamentali, a cui i teologi non possono rinunciare, ovvero la semplicità e l’immutabilità.

Cleante ha buon gioco di replicare, sempre humianamente, di non conoscere altre menti, diverse da quella umana. In questo modo Hume, molto maliziosamente, riesce a far emergere la sua posizione personale contrapponendo Demea e Cleante: non sono concepibili “altre menti”, con caratteristiche opposte a quella umana e chiamarle “menti” “sarebbe un abuso terminologico” (D., 3); non è possibile ipotizzare, senza contraddizione, che dio sia una “mente” assolutamente “differente” da quella umana. Se invece si ammette la loro somiglianza si ricade, come si è già visto, nelle stravaganze dell’antropomorfismo, inaccettabili per un autentico teista. Infine, se si afferma che dio non è una mente, allora crolla l’intera analogia che per Cleante (e per Hume) costituirebbe, se fosse valida, la sola prova possibile a favore della sua esistenza.

Non ancora pago di avere maltrattato a dovere l’argomento a posteriori, Filone-Hume analizza, nella parte sesta e settima, altre possibili analogie che, in base al metodo di Cleante, non possono essere scartate. Gli effetti delle attività umane, afferma, non sono i soli ad assomigliare ad alcuni aspetti del mondo naturale: questi assomigliano anche agli effetti delle attività biologiche di animali e piante. Le stelle, ad esempio, pur essendo inanimate si comportano in molte situazioni come se non lo fossero: anch’esse nascono, si evolvono e muoiono (questo esempio non compare nei Dialoghi perché ai tempi di Hume la struttura interna delle stelle era poco conosciuta e le concezioni evoluzionistiche della vita erano ancora in fase embrionale, ma credo che renda bene l’idea di questa “nuova analogia” proposta da Filone). Accettando tale nuovo criterio di somiglianza, però, si dovrebbe inferire che la causa dell’universo sia analoga a quelle degli esseri viventi, ovvero qualcosa come generazione o vegetazione; ipotesi sempre compatibile con i presupposti da cui parte Cleante, ma palesemente fantasiosa e inverosimile.

Infine, lungi dal dimostrare la presenza di una finalità o di uno scopo nella natura, il metodo sperimentale di Cleante potrebbe essere utilizzato anche per avvalorare l’ipotesi materialistica e meccanicistica. Nella parte ottava Filone-Hume, correggendo Epicuro, suppone che la materia sia finita e quindi suscettibile di un numero finito di combinazioni; ammettendo un tempo eterno “deve necessariamente accadere che ogni ordine o posizione possibile si ripeta un numero infinito di volte” (D., 8).

Ne consegue allora che “questo mondo, con tutti i suoi eventi, anche i più piccoli, è stato già prodotto e distrutto, e sarà ancora prodotto e distrutto, senza confini e limiti” (D., 8). L’ordine, in questa prospettiva, non ha bisogno per instaurarsi di una causa intelligente; è semplicemente una necessità statistica. Anche il movimento non implica, qui, l’esistenza di un primo motore o agente volontario, perché lo si può immaginare co-eterno alla materia. Nulla, dunque, ci permette di escludere che il cosiddetto “universo organizzato” non sia il frutto di un cieco incidente cosmico.

Della critica dell’argomento a priori e di quello cosmologico (parte nona) abbiamo già detto. Non è un caso che Hume demolisca l’argomento a priori subito prima di occuparsi dell’annoso problema del male (parte decima e undicesima); infatti, se l’esistenza di dio si potesse provare logicamente, partendo unicamente dal suo concetto, il male sarebbe un problema solo apparente, dovuto alla limitatezza delle nostre capacità di comprensione, e si concilierebbe, anche se in modo misterioso, con la bontà e la perfezione dei suoi decreti. Tuttavia, avendo respinto tale argomento perché metodologicamente inapplicabile a questioni di fatto, Hume può sollevare il problema della teodicea e soffermarsi sulla sua scottante problematicità. Ed è qui che si celebra il “trionfo” di Filone-Hume su Cleante; dovendo giudicare sulla base dei dati empirici, senza supposizioni aggiuntive, la conclusione obbligata è: l’impotenza di dio (perché non è capace di impedire il male) oppure l’assenza in lui di sentimenti morali (perché non vuole impedirlo e si disinteressa delle sue creature). Conclusione, questa, teologicamente scandalosa che spinge un inorridito Demea a uscire dalla scena.

I Dialoghi humiani hanno esercitato una grandissima influenza sui pensatori successivi (in particolare Kant) sia per la loro eleganza letteraria sia per il loro spirito iconoclasta e antidogmatico. Essi costituiscono un vero e proprio macigno contro il quale sono destinate a naufragare non solo le prove tradizionali della religione ma anche qualsiasi sistema metafisico che si autoproclami come l’unico possibile. Molte delle critiche rivolte contro la teologia naturale potrebbero, infatti, essere utilizzate mutatis mutandis contro il materialismo metafisico o contro l’idealismo. Il personaggio che meglio esprime lo spirito dei Dialoghi e si avvicina di più alle posizioni attribuibili all’autore è, secondo me, Filone. Non a caso ho voluto soprannominarlo Filone-Hume. Chi volesse seguirlo, non dovrebbe approdare ad uno scetticismo estremo, negatore del buon senso e inconciliabile con le esigenze della vita quotidiana, ma imparare a non accettare acriticamente tutto ciò che si sottrae a qualsiasi criterio rigoroso di verifica; lezione, questa, banalissima quanto a contenuto, ma della quale l’umanità ha tuttora disperatamente bisogno per liberarsi dalla superstizione e dai fanatismi.

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