Gardenio Granata, Le Satire di Ariosto: la storia di un cortigiano-contro
Più si leggono le “Satire” di Ariosto e più si ha l’impressione che quel mondo si chiuda, come un pudico sipario, sui sentimenti più profondi di questo grande attore che inscena se stesso tra una miriade di vizi ed errori, cui incorre un’umanità a lui ben nota. L’Ariosto satiro escogita ostacoli e avversari, per poter schierare in campo aperto quella che, solo apparentemente, parrebbe lotta di un misurato saggio contro le brutture altrui, ma che, a sguardo più penetrante, si rivela invece una “psicomachia” rosa dal dubbio che i “tu” contrapposti all’“io”, non siano stati baciati unicamente dalla fortuna, ma l’abbiano aiutata con comportamenti di spregiudicata impudenza, quando non vera e propria alterigia, dimentica di ogni minima eticità.
La pseudostruttura dialogica, nel suo monologare ininterrotto, fornisce all’io narrante la possibilità di apparire sobrio e orazianamente “integer vitae scelerisque purus” → (dalla vita integra e libero da colpe, “Carmina” I, 22) quando il mondo, che è il suo, è in mille guise teso al carrierismo più sfrenato e talora volgare; lesto a contrabbandare e mercificare sacro e profano, in una commistione dantescamente tramutante tutto in folle dismisura, nell’attesa taciuta di una messianica punizione.
La bonarietà ariostesca si tinge allora di grumi acidi e virulenti, il lessico profitta del “parlato”, cui s’unisce un apparato culto di mobilitazioni mitologiche, di riferimenti dotti che lasciano il lettore sempre confuso tra semplicità e voluminosa enciclopedia di saperi, dipinti come normali puntelli per l’autodifesa di questo cortigiano, “malgré lui”. Le “Satire” prendono talvolta spunto da occasioni di ordinaria follia (altrui), o da bisogno incoercibile di definirsi in un quadro di positiva “medietas”(senso della misura) a fronte di un brulicante universo tramato di sotterfugi, ipocrisie ed inganni, di ansie per avere e non per essere.
L’uomo Ariosto appare un isolato volontario che ha scelto nel procelloso mare della vita una rotta senza collisioni e collusioni, un saggio che guarda ad uomini e cose, vivisezionando il reale con puntiglio non disgiunto da acuta brama di quiete. Accontentarsi con l’amarezza sperimentata di chi, entrato nell’agone, ha pagato i prezzi alti che la giostra della fortuna esige dai suoi ingenui passeggeri, sembra essere il vangelo ariostesco; un “modus vivendi” che volutamente lo contrappone ai perversi desideri di onore e potere che invadono e turbano l’esistenza.
Da qui il ricorso ad apologhi che sfruttano l’atemporalità per acquisire una dimensione universale, gnomica, quasi paremiologica, dove l’impiego di figure zoomorfe, in luogo di una “reductio”, si struttura come abile manovra fabulistica, secondo lo schema esopico-fedriano de “la favola dimostra che”, per riuscire, ancora una volta, a veicolare di sé l’immagine che preferisce: quella di un uomo che conosce e non intende mettere a repentaglio il fardello di insegnamenti impartitigli dalla durezza dell’esistenza.
«Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quiete sia, né ve n’è alcuna.»
[Satire, III,229-231]
C’è sempre una distanza tra l’“io” e il “tu” o gli altri, quasi grottesche maschere di un carnevale sovvertitore di regole morali, in cui l’“ordo rerum” si è dissolto in un caotico rincorrere prebende e danaro, prosternandosi e prostituendosi al potere, qualunque ne sia il volto o l’abito. Una carrellata, quasi dantesca, di vizi e poche virtù, pennella un mondo da cui il Nostro si ritrae inorridito, con l’occhio ironico ammiccante a realtà abilmente immeschinite o comunque banali, ma tali da preservarne l’indole allo studio e agli affetti sinceri.
Inutile negare che nelle “Satire” spesso trema il brivido di una società dissoluta, che il manicheismo etico di Ariosto puntualizza con l’acre polemica di giovenaliana memoria condita con il sapido e meno umorale Orazio dei “Sermones”. Sono, le “Satire”, l’esito di un moralismo alto che, sulla scorta della lezione di Seneca nel “De tranquillitate animi” (I, 5-7) e di Machiavelli, parla del mondo com’è, differenziandolo dal suo che, giocoforza, deve apparire mediocre e lindo, pur sapendo egli delle intrinseche difficoltà di mantenerlo tale.
Ogni tanto affiora il ricordo della semplice e fantasiosa vita giovanile e adolescenziale, quando tutto era vergine e pulito nei sogni e nelle azioni; poi, secondo il “topos” del tempo e degli obblighi di vita pratica, si accampa la querimonia, in apparenza sorridente, in realtà implacabile, di chi dagli eventi è stato costretto a indossare i panni dello “iudex” per salvarsi dalla palude delle inquietudini in cui invece vede immersi i contemporanei. C’è in Ariosto, abilmente occultata, la consapevolezza dell’importanza d’essere poeta grande, la coscienza limpida che la poesia è veicolo eternatore di glorie non effimere.
La povera gazza-Ariosto (Satira III, 109-150) resta spiazzata nel gioco delle parti e si prende rivincita con strali precisi e sempre a bersaglio grosso. Chi comanda dimentica, e specialmente chi, come grillo parlante “ante litteram”, mette il dito nella piaga della umana follia. Hanno un bell’inseguire la loro porzione di luna, gli ingenui valligiani (Satira III, 208-231)! I loro canestri resteranno vuoti, il loro sogno goloso, inappagato! La saggezza ariostesca è troppo conclamata in queste rime per non emanare qualcosa di sulfureo che arde costantemente di un fuoco profondo e magmatico non cancellabile neppure dal sorriso dell’uomo superiore. Troppo perfetta la scelta di una vita senza compromessi, per riuscire nell’intento di convincere fino in fondo sulla esibita tranquillità dell’animo.
Non è un caso si legga nella Satira V [vv. 82-84]:
«Non hai, quando dui giocano, veduto
che quel che sta a vedere ha meglio spesso
ciò che s’ha a far, che ‘l giocator, saputo?»
Forse è proprio questa la collocazione ironico-contestativa che l’Ariosto sceglie per sé, creandosi così un alibi interiore e letterario ad un tempo: interiore perché sa di suo che l’opzione centrifuga lo mette al riparo da un mondo per lui invivibile e solo osservabile dal di fuori, senza sporcarsi le mani e l’anima nel pantano della vita-agone; letterario, in quanto gli consente di sferrare attacchi a prelati, politici, papi, umanisti e potenti dal “buen retiro” psicologico in cui affina il suo linguaggio accusatorio, secondo ritmi che le terzine rendono talora ondulatorii e talvolta sussultorii, giostrando magistralmente fra endecasillabi appuntiti come giambi o briosi come galliambi.
La poesia salva la vita e Ariosto ne pare intimamente consapevole, al punto che il timore più grande è vedere i suoi studi e fatiche letterarie avvolti dall’oblìo: «sí che inondar lasci il mio studio a Lete.» (Satira I, 162). A conferma di questo suo amore per gli “otia litterata”, la richiesta al Bembo, nell’ultima Satira (VII), di un buon maestro di greco per il figlio, nell’amarezza malcelata di aver perso Gregorio da Spoleto, insigne maestro, e nella convinzione che solo la conoscenza di entrambe le lingue classiche possa rendere completa un’educazione umanistica (lui aveva potuto apprendere solo il latino).
Ma gli umanisti spesso non mostrano eticamente una moralità inconcussa, facili come sono a lasciarsi irretire nella lascivia corruttrice verso i giovani discepoli. È l’ultimo strale, quello che fa cadere la maschera volutamente compassata e offre la misura esatta del suo amore per una integrale scelta letteraria e di vita, che lo colloca tra i due “Furiosi”, già ai piani alti di un sapere costretto a fare i conti con la sciocca e subdola protervia di personaggi che occupano in modo iniquo posti importanti, da cui lui è escluso.
Ma nella “Res publica litterarum” Ariosto sa di meritare un posto, mentre, come dirà nel “Furioso” (XXXIV, 75, 595) «l’ozio lungo d’uomini ignoranti» è già di per sé scandalosa punizione solo annunciata dalle “Satire”, in vista di uno scenario di respiro più ampio che il suo capolavoro, vera macrometafora della vita, saprà allestire con regia superiore.
Prof. Gardenio Granata
17-19 Marzo 2021
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