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Gardenio Granata, Dai sodomiti a Gerione [Lectura Dantis, Inferno XVI]

«Sostati tu ch’all’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava»
(vv. 8-9)

Se nel delicato e affettuoso incontro con ser Brunetto, episodio centrale del canto XV, si è potuta ravvisare la corda del rammarico per gli antichi e buoni costumi, soffocati dall’odio e dalla cupidigia che avvelenano Firenze, nel dialogo con i tre nobili fiorentini il tema si precisa in un’aspra nota polemica che esaurisce il discorso politico iniziato da Ciacco nel canto VI.

L’incontro con Jacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi si sviluppa sugli stessi toni di cortesia e rispetto già osservati nel dialogo con Brunetto Latini, anzi, si potrebbe definirlo una continuazione ideale di questo. Come nel caso di Brunetto, anche qui ad accamparsi in primo piano non è la colpa di sodomia, per quei tempi infamante, ma le chiarissime virtù civili dei fiorentini incontrati, segno palese dell’indipendenza di giudizio dantesca.

Il canto si apre con un dettaglio sonoro, quello dello scrosciare di una cascata, e si chiude con un inquietante rito magico, quasi un’evocazione medianica culminante con l’apparizione, tra il velo pulviscolare delle acque ribollenti, di una mostruosa e ibrida creatura demoniaca. Tra questi due momenti, percorso per tutta la durata del canto dal bordone grave della cascata (non ancora vista ma efficace prolessi del baratro imminente), si profila il duplice tema della cortesia, ripresa e continuazione dell’atmosfera nostalgica per una Firenze ormai scomparsa, dove le scelte di parte non appannavano l’amor di patria; e della dura condanna etica della Firenze attuale, già evidente nella battuta d’esordio del Rusticucci.

È opportuno notare però che il dialogo con i tre nobiluomini, pur improntato a rispetto e ammirazione, differisce alquanto da quello intrattenuto con l’antico maestro. Nel discorrere di Dante con Brunetto Latini non c’è spazio per la rappresentazione della pena. Ci sono, sì, dei rapidi accenni («viso abbrusciato», «lo cotto aspetto») ma la pioggia di fuoco resta sullo sfondo. Brunetto non ne appare colpito nel taglio narrativo adottato; non dimena le mani nell’incessante e frenetica «tresca» per allontanare da sé le faville, né si lamenta, sicché nulla interviene a sminuire la solenne compostezza del riconoscimento, da parte del maestro, della valentìa artistica del discepolo.

Solo a conclusione del dialogo Dante introduce una nota di svilimento della figura di Brunetto, rompendo l’eleganza della scena con la spiritata corsa finale. Nel ritrarre i tre fiorentini, invece, assistiamo ad una grottesca sarabanda dovuta alla necessità di non cessare il moto, in obbedienza alla legge del girone. In questo e altri elementi (come nella corsa di Brunetto) si sostanzia la condanna dantesca verso la loro colpa; nella distanza tra l’altezza morale di cui sono testimonianza le benemerenze acquisite da quei personaggi e la debolezza che li fece indulgere al vizio, e la miseria della loro condizione attuale. Dante non risparmia dettagli di crudo realismo nel rappresentare lo stato in cui versano questi sventurati, anche se, in parallelo, rende loro ampiamente onore e professa una commossa partecipazione al dolore che li segna.

Lo stesso contrasto tonale appare nelle parole di Jacopo Rusticucci che al timore del disdegno che la loro condizione potrebbe indurre nell’interlocutore, sostituisce la testimonianza dell’antica fama, rievocazione tanto più dolente proprio perché patetico bilanciamento dello squallore di cui sono costretti a far mostra. Il goffo e surreale balletto anima una sequenza nel suo complesso burattinesca e meccanica, tale da escludere da sola ogni possibilità di ricollocare i tre fiorentini, pur così struggentemente preoccupati dei valori politici e civili, sopra un piedistallo di ricomposta dignità. Al primo manifestarsi, i tre spiriti vengono colti nei tratti salienti della pena: il correre e le piaghe, «ricenti e vecchie», che sono il loro marchio d’infamia.

Saranno le parole di Virgilio a proporre l’insospettata necessità dell’usar loro cortesia, dove il termine acquista il più vasto spettro semantico, e a prepararci alla nobiltà dei tre antichi e virtuosi cittadini:

«A le lor grida il mio dottor s’attese,
volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta”,
disse, “a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il fuoco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta”»
(vv. 13-18)

Quanto segue, è reso da una viva similitudine (vv. 23-27) che si appunta sulla dinamica esteriore degli improvvisati coribanti. Val la pena invece di soffermarsi sulla “preghiera” di Jacopo a Dante:

«E “Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e i nostri prieghi”,
cominciò l’uno, “e ’l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuri per lo ’nferno freghi.
Questo, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.”»
(vv. 28-39)

I versi di presentazione di Guido Guerra formano il ritratto del perfetto cavaliere, in cui ardimento e saggezza si equivalgono e si completano. Non a caso il verso 39 è stato ripreso quasi alla lettera dal Tasso per scolpire la figura di Goffredo di Buglione nella sua Gerusalemme liberata: «Molto egli oprò col senno e con la mano» (I, 3).

Di come il rimpianto per la vita terrena, motivo ricorrente nei dannati, si carichi qui di accenti di più gravosa pena, a causa della relazione prospettica tra gli onori di un tempo e il ludibrio dell’eterno e funesto presente, non mette conto ripetere. Sia sufficiente notare come il contrasto chiaroscurale che percorre la richiesta di Jacopo si riproponga, motivo dominante, nella presentazione di Guido Guerra (e di Tegghiaio ma, con lodevole modestia, non nella propria), del quale vengono evocati la nobile ascendenza e il bell’operare.

Ma il punto che preme esaminare ora è la comparsa di un nobile fantasma: la buona Gualdrada. Con lei e con Guido entra in scena il mondo della cavalleria, mondo antico appunto, di cui si può soltanto contemplare il declino…

Forse proprio a fronte di una così pervasiva e inquietante decadenza, il poeta si presenta quale “homo viator” secondo il modello biblico-allegorico del viaggio salvifico dall’amaro al dolce: «Lascio lo fele e vo per dolci pomi» (v. 61) a lui promessi da Virgilio. La perifrasi mutuata dal fiorentino parlato (si ricordino le parole di Brunetto ai vv. 65-66: «ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttar lo dolce fico») è ovviamente allusiva della felicità naturale che lo attende: ma tale felicità è quella stessa di una “civitas” ordinata e feconda, di un mondo irenico e riposato dove la fama abbia il giusto corso e cortesia e valore non siano nomi vani.

È dunque il tema politico a riprendere quota nel discorso, una politica che, nella genericità della formulazione e nell’ottica forzatamente retrospettiva dei tre dannati, viene a coinvolgere l’etica. Questa tematica sarà oggetto della vibrante esclamazione di Dante, in risposta alla domanda di Jacopo Rusticucci circa la veridicità delle affermazioni di Guglielmo Borsiere sulla decadenza di Firenze:

«La gente nova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che già ten piagni»
(vv. 73-75)

Qui il poeta denuncia icasticamente la causa del degrado etico che deturpa, come un’immonda cicatrice, il bel volto della «piccola patria», lo stesso degrado che Ciacco sostanziava in superbia, invidia e avarizia, ma che ora acquista nuova luce nel porre implicitamente a confronto diversi momenti della vita cittadina, dagli alti valori cortesi della cavalleria ai robusti appetiti mercantili e ai guadagni troppo rapidi.

Dante grida questa diagnosi in atteggiamento fiero e di sfida (e Cacciaguida la riconfermerà nei cieli, Par. XVI, 67-68): proprio per questo Dante è isolato, l’unico dignitoso di fronte alla bestialità dei Fiorentini, isolato e protagonista nella sua maggior consapevolezza anche rispetto a Brunetto e ai sodomiti del nostro canto XVI. La liberalità è un elemento fondamentale della cortesia: è una dote del tutto estranea ad una compagine sociale in cui l’ottica mercantile ha inoculato i pericolosi veleni del guadagno.

Indignazione e rimpianto sono i due movimenti più naturali dello spirito dantesco e stanno alla base di questa posizione. Essa è stata vista spesso come conservatrice se non reazionaria: non accetta l’emergenza di nuove classi, il mutamento delle strutture economiche, la nascita di nuovi ideali. In verità quello su cui Dante non può concordare è che il possesso del denaro sia elevato a principio di valutazione dell’uomo. I mali di Firenze sono nella nuova, piccola, nobiltà di toga, nei “parvenus”, le nuove famiglie giunte dal contado; nella dissoluzione dell’economia feudale a tutto vantaggio dei ceti mercantili, che produce rapidi arricchimenti e concentrazioni di potere cui non corrisponde un abito etico a lungo coltivato; nel dilagare, per queste ragioni, di «orgoglio e dismisura», vizi nettamente antitetici alle virtù cavalleresche per eccellenza, cortesia, dignità e misura nell’agire.

L’involgarimento di una società sottoposta all’imperio dei nuovi ricchi, dove ogni valore è subordinato alla legge del profitto, non è argomento che si possa relegare nelle polverose cronache; i suoi effetti sono ben visibili negli eventi del sanguinoso calendimaggio del 1300: gli odi, gli scontri, la città divisa, i guelfi neri scacciati e la loro vendetta (cfr. Inf. VI, 64-69), in una parola, l’interesse di parte che prevale su quello generale, ciò che, ai tempi delle «vertudi» e dei «belli costumi» della cavalleria non sarebbe mai accaduto.

La condanna del presente suona rifiuto del materialismo affaristico dei borghesi e dei nobili ed è ispirata alle idealità cavalleresche di cui i dannati che ha di fronte sono portatori. Quindi la proposta è proprio costituita da queste idealità cortesi: gentilezza, lealtà, magnanimità, rettitudine e amore per la cultura sono caratteristiche dell’individuo, ma si riflettono sui rapporti sociali promuovendo una convivenza giusta e concorde.

I tre politici fiorentini vogliono sapere se la divisione in classi di Firenze sia ancora quella a loro nota o se sia mutata: tale divisione è – per loro e per Dante – quella “giusta”: essa garantiva cavalleria e continenza, la Firenze «sobria e pudica» di Cacciaguida. Sarà un mito che, con lo stesso personaggio – Gualdrada, nonna di Guido Guerra – riprenderà ancora Boccaccio (Dec. X, 8). Le ultime battute del dialogo con i tre fiorentini sono scandite ancora da ammirato rispetto di cui, però, stavolta è destinatario Dante, nel quale questi ravvisano quella franchezza e onestà di giudizio, espressione di rigore morale, che hanno or ora appreso estinte.

L’augurio di tornar presto «a riveder le belle stelle», la preghiera di rinnovare la loro fama in terra e l’improvviso fuggire mettono fine al convegno. Verso Gerione…

Dante e Virgilio si avvicinano sempre più alla cascata che segna il limite estremo del girone e del cerchio. Anche qui il poeta conferisce realismo al suo racconto attraverso piccoli dettagli, come il frastuono crescente dell’acqua e la similitudine di eccezionale precisione con cui paragona la cataratta, ora visibile, al precipitare del Montone all’altezza del villaggio di San Benedetto dell’Alpe, dove dà vita alla cascata detta dei Romiti.

A questo punto inizia la sequenza conclusiva del canto, percorsa da un evidente, per quanto misterioso, simbolismo magico. Dante svolge una corda di cui si era cinto, e con cui ha pensato a suo tempo di catturare la lonza, vale a dire imbrigliare la lussuria. Il rituale prosegue minuzioso; gran sacerdote ne è Virgilio, assai vicino in questa fase a quel Virgilio mago di medievale memoria. La corda, che Dante porge «aggroppata e ravvolta», viene gettata nell’abisso. Non resta che attendere «che novità risponda», mentre Virgilio scandaglia con lo sguardo l’insondabile profondità per osservare gli effetti del suo gesto. Tutta la scena è come sospesa. Il momento della rivelazione è sapientemente preparato e ritardato fino all’inizio del canto successivo.

Una considerazione sulla necessaria cautela da osservare in compagnia di uomini adusi a cogliere la verità e i pensieri più riposti sotto il velo delle apparenze esteriori anticipa le parole che Virgilio dirà di lì a poco e proietta su di loro una luce profetica, tale da dilatare all’estremo i tempi dell’attesa. Il «duca» annuncia la venuta di qualcosa che il pensiero di Dante può solo immaginare confusamente.

La sua allusiva reticenza offre al poeta il destro per una riflessione di metodologia comportamentale, quasi un ammonimento a tacere in merito a cose tanto mirabili che apparirebbero come menzogna, se rivelate prima di poterle vedere nel loro concreto manifestarsi (cfr. vv. 124-126: «Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna / de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote, / però che sanza colpa fa vergogna». Si ribadisce qui un concetto già affermato ai vv. 50-51 del canto XIII. Si noti che l’espressione dantesca «faccia di menzogna» somiglia alquanto ad una presente nel Tresor di Brunetto Latini [II, VIII, 17]: «La verité a maintes fois face de mençoigne, et mençoigne est couverte en semblance de verité»).

Un solenne giuramento, rivolto direttamente al lettore (vv. 127-128: «[…]; e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, […]»), apre la strada all’epifania del mirabile: su per il denso tenebrore viene una figura arcana, che ci viene resa non nella sua specificità morfologica bensì nelle modalità del suo lento fluttuare, descritto con una similitudine attinta ancora al mondo dell’esperienza comune (cfr. vv. 133-135: «sì come torna colui che va giuso / talora a solver l’àncora ch’aggrappa / o scoglio o altro che nel mare è chiuso»), volta a sostenere, con un concreto riferimento all’usuale, la verosimiglianza del fantastico, mai rappresentato, prima, con tanto vigorosa plasticità.

Dante, dunque, non può tacere, pur rendendosi conto del carattere straordinario dell’apparizione di Gerione. L’augurio che le «note» della «comedìa» non restino prive di «grazia» (cfr. v. 129: «s’elle non sien di lunga grazia vòte») indica, nel doppio significato del termine, la speranza di conservare quel dono della grazia di Dio che è stata la visione e, dopo, è la possibilità e la capacità di raccontarla. Il giuramento per la propria opera riproduce quello sulla Bibbia. Dante ripropone il suo poema come la nuova scrittura sacra, per la quale, appunto, si giura per dimostrare e garantire la verità che si testimonia.

L’immagine che Dante offre di Gerione nell’incipit del canto XVII (cfr. Orazio, Carmina, II, 14, 7: «ter amplum Geryonem»; Ovidio, Heroides, IX, 91: «prodigium triplex»; Seneca, Agamemnon, 834: «Geryonae triformis»; Silio Italico, Punica, XIII, 201: «Monstrum Geryones immane tricorporis irae») è stata comunque profondamente influenzata dalla descrizione che Plinio – seguito da Solino (sec. III d.C., Collectanea rerum memorabilium) – dà dello strano animale chiamato “Mantichora” (Historia Naturalis, VIII, 30), che ha il volto umano, il corpo di leone e la coda terminante in un pungiglione, come quella dello scorpione.

Sono tre elementi che trovano conferma nei tre verbi di azione (e di distruzione) che lo caratterizzano nella prima terzina («passa», «rompe», «appuzza»). Incarnazione della frode (cfr. v. 7: «sozza imagine di froda») Gerione finisce con l’essere una parodia di Cristo: tre-in-uno piuttosto che uno-in-tre.

Ci pare interessante rilevare il fatto che le parole che aprono questo canto XVII – troppo collegate alla conclusione del precedente per non meritare attenzione – al centro numerico dell’Inferno, «Ecco la fiera», parrebbero riecheggiare la consueta dizione cristologica di «Ecce homo» (Ioan. 19.5), con palese metamorfosi sostanziale che oltrepassa il livello parodistico per farsi annuncio drammatico del “Gerione-Anticristo”, vessillifero di quella frode capace – se non vinta – di annientare ogni possibile sforzo di convivenza civile…

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