Vita e pensiero di José Ortega y Gasset
Filosofo, insegnante di metafisica, saggista dalla scrittura chiara ed elegante, José Ortega y Gasset nasce il 9 maggio 1883 a Madrid, in un ambiente ricco di stimoli intellettuali. Per dare un’idea dello straordinario clima intellettuale che si respirava in casa Gasset, basti dire che il padre era un giornalista, il nonno materno fondatore e proprietario del più importante giornale liberale dell’epoca (El Imparcial), e quello paterno fondatore di numerose riviste, oltre che opinionista su diversi giornali spagnoli. Infine, lo zio materno fu nientemeno che ministro e deputato della repubblica spagnola.
Dopo solidi studi classici, si laurea, a soli diciannove anni in Lettere e Filosofia a Madrid e, nello stesso anno, pubblica il suo primo articolo. Di eccezionale bravura ed intelligenza, dopo aver vinto una borsa di studio, si trasferisce all’Università di Lipsia e poi in quella di Berlino.
Trovatosi dunque nel cuore della tradizione metafisica europea, questi sono anni di fondamentale importanza per la sua formazione filosofica, in cui matura anche il suo convincimento dell’importanza decisiva che la cultura in senso stretto, e la scienza, esercitano sulla buona riuscita della politica e della convivenza sociale. Un argomento questo su cui mediterà a lungo e che lo porteranno alla conclusione che è proprio la mancanza di questi due elementi che generano l’arretratezza della Spagna di allora. Superato questo “puntum dolens”, per Ortega y Gasset il paese iberico potrebbe veleggiare tranquillamente verso orizzonti più rosei.
Nel 1910 si sposa con una giovane di buona famiglia di ascendenze genovesi e, nello stesso anno vince, attraverso concorso, la cattedra di Metafisica a Madrid. Da questo momento in poi il filosofo terrà numerose conferenze, sempre incentrate sulla questione ispanica che, a parere dello studioso, avrebbe dovuto “europeizzarsi” sempre di più.
Non a caso, nel 1914, alla conferenza Vecchia e nuova politica, non solo presenta il manifesto della “Lega di educazione politica”, ma si presenta come portavoce di una nuova generazione di intellettuali, la generazione europeista del ’14, impegnati nella riforma culturale, morale e politica della patria. L’intento è quello insomma è quello di organizzare e coaugulare intorno ad un unico progetto quelle minoranze colte, quelle elite culturali in grado di provvedere ad una più ampia educazione politica delle masse. In questo, già si delinea quello che scriverà in seguito, più compiutamente, nel saggio La Spagna invertebrata e, con gli stessi contenuti ma su un piano più internazionale ne La ribellione delle masse. Dalla lettura di questi scritti emerge che secondo il pensatore è la parte “migliore”, la cosiddetta “minoranza scelta”, della società che deve guidare la massa.
In seguito, dopo aver già fondato la rivista El Sol, nel 1923 fonda la Revista de Occidente, divulgazione scientifico-culturale attraverso cui Ortega pubblica in lingua castigliana le principali opere letterarie e filosofiche europee. Sul foglio diretto dal filosofo appaiono quindi nomi come Husserl, Freud, Spengler, Jung e così via.
Scrittore appassionato e dalla forte inclinazione, subirà una grossa delusione con l’avvento di Franco e del suo regime dittatoriale. Amareggiato, si allontana così dalla vita politica per dedicarsi a studi e letture, nonché alla stesura di altri importanti libri. In apparenza, dunque, la sua incisiva azione politica sembra spenta, lo scrittore non sembra più in grado di offrire alcun contributo. Invece, nel 1930, sull’onda del grave malcontento che il governo dittatoriale stava provocando nella popolazione, crea la Agrupación al servicio de la República, allo scopo di promuovere la vittoria della Repubblica nelle elezioni indette per l’aprile del 1931. Eletto come deputato alle Cortes Constituyentes, dopo la breve e deludente esperienza della Seconda Repubblica e lo scoppio della guerra civile, si ritira, stavolta in maniera definitiva, dalla vita pubblica e addirittura abbandona il Paese, diventando di fatto un esule. Il suo nome e il suo enorme prestigio sono accolti ovunque con benevolenza, e questo gli permette di intervenire a favore del suo Paese e contro la dittatura, con conferenze e quant’altro, nelle sedi appropriate sperse un po’ in tutto il mondo.
Nel 1946 il governo franchista gli permette di tornare in patria. Ortega accetta, anche se ormai le sue condizioni di salute sono molto gravi. Dopo un intervento chirurgico non riuscito, muore a Madrid il 18 ottobre 1955.
Uno sguardo accurato merita il pensiero politico di Ortega. Negli anni venti in Spagna vi è la dittatura di Primo de Rivera che viene definita ‘dictablanda’ in quanto non ha le caratteristiche repressive del regime fascista. Ortega, in questo periodo di relativa mancanza di democrazia, scrive La ribellione delle masse: la storia, il progresso, si attuano ad opera delle minoranze. Se vi deve essere un rinnovamento, dunque, questo deve avvenire ad opera dei migliori, che vanno, comunque, reclutati in maniera liberal-democratica.
Ortega teme che le masse chiedano tutto allo Stato e che esso conceda loro tutto in cambio di cieca obbedienza: ciò causerebbe una mancata emancipazione delle masse. Fa incontrare il liberalismo e il socialismo: il liberalismo deve perseguire una totale emancipazione dell’individuo (a qualunque ceto esso appartenga), il socialismo deve abbandonare la statolatria e finire di perseguire un egualitarismo troppo estremo. L’avvento delle masse al pieno potere sociale è un fatto di cui bisogna prendere atto: provoca nella società europea una crisi perché le masse non possono guidare la società; ciò non toglie che esse possano scegliere i propri rappresentanti.
Il problema è l’iperdemocrazia: cioè l’emancipazione priva di assunzione di responsabilità. Si verifica in questo periodo il fenomeno dell’agglomerazione: città piene, treni pieni, alberghi pieni, le masse fanno propri i luoghi pubblici; ciò non è un male, è indice di civiltà, “sebbene il fenomeno sia logico, naturale, non può negarsi che prima non si verificava”. Tutto ciò non è dovuto a un boom demografico ma alla massificazione della società (questi individui preesistevano ma non formavano ancora una massa). In tutto questo vi è un elemento negativo: i migliori (in base alle loro qualità) vengono assorbiti dalla massa, “gli attori sono assorbiti dal coro”.
Quando Ortega parla di massa non intende la classe operaia, poiché “massa è l’uomo medio”. La massa non è solo un fatto quantitativo, ma anche qualitativo che palesa una media tendente verso il basso. Il componente della massa non si sente tale e, quindi, si sente tutto sommato a suo agio: non realizza la condizione di conformismo in cui è sprofondato. In questo scenario deve comunque venir fuori una minoranza eletta: ne fa parte l’uomo che continuamente si sforza per uscire dal coro e diventare attore protagonista, qualunque siano il suo ceto e il suo censo. Ortega non rifiuta la visione liberal-democratica, teme l’iperdemocrazia: era meglio l’800 liberale europeo, caratterizzato dal dialogo e dal confronto.
L’iperdemocrazia si manifesta nella massa che vuole governare con i luoghi comuni, la vita dell’uomo-massa è priva della volontà di progredire e di partecipare ad un processo di evoluzione della società. La massa non capisce che se ora si può godere di certi vantaggi ciò è dovuto al progresso: ma per progredire ci vogliono sforzi, ci vuole l’opera di singoli individui, usciti dal coro, diventati attori protagonisti. Le masse, invece, considerano il progresso come qualcosa di naturale, che non è costato alcuno sforzo. Non “ringraziano” chi ha reso possibile questo sforzo: il liberalismo (inteso come individualismo, sforzo individuale degli elementi migliori). La massa crede che il progresso sia qualcosa di irreversibile: questo progresso va in realtà mantenuto; la politica richiede mediazione e ragionamento, mentre l’uomo-massa concepisce la politica solo come azione diretta. Non rispetta, cioè, chi discute, non è disposto a mettere in gioco le proprie idee.
La novità politica in Europa consiste nel venir meno delle discussioni: questo è il regime che piace all’uomo-massa. A tutto questo si contrappone il liberalismo: lo scopo della politica dovrebbe essere quello di rendere possibile la convivenza, attraverso la discussione; bisogna avere il diritto di dissentire. Prima vengono gli individui, poi la collettività. Il liberalismo è “il più nobile appello che sia risuonato nel mondo” in quanto convive con l’avversario, accetta l’avversario e gli dà cittadinanza politica; è un bene, infatti, che esista un’opposizione. La massa, invece, odia a morte ciò che gli è estraneo: non dà cittadinanza politica a chi ha opinioni dissenzienti.
Noi viviamo nell’epoca del “signorino soddisfatto”: pensa a tutto lo Stato, lui non deve badare a nulla, si deve limitare ad essere conformista. Tale individuo è un “bambino viziato”: dà per scontati benessere e progresso, crede che la vita non necessiti di competizione e che non sia necessario che i migliori debbano emergere. Il progresso non è una cosa facile, la massificazione, invece, induce a ritenerlo. Lo Stato è il maggior pericolo per chi vuole uscire dal coro: non è più un mezzo (come nella concezione liberale) ma è diventato un fine. L’uomo-massa riceve dallo Stato tutto e ciò lo induce all’omologazione e alla mancanza di attivismo; rischia di dimenticare che lo Stato non può risolvere tutti i problemi, l’individuo-massa sbaglia perché “delega in bianco”.
Lo Stato assorbe anche la società civile e l’individuo non ha più uno spazio dove far crescere e dimostrare le proprie capacità. Massa e Stato si identificano a vicenda: un esempio pratico è l’Italia di Mussolini. Ortega non è nemico dello Stato (tanto più che è stato costruito dai liberali), crede però che vada articolato con continenza. “Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse governano autonomamente”: nessuno è responsabile e si perde l’individualità e l’unicità.
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Fonti
– WikiPedia, per la bibliografia
– BiografieOnline.it
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