Gardenio Granata, La vita vera è altrove: “L’airone” di Giorgio Bassani e il suo prigioniero
«Soltanto loro, i morti, contavano per qualcosa, esistevano veramente»
[Giorgio Bassani]
Edgardo Limentani ci appare subito un uomo prigioniero non del passato ma del futuro; ogni sua parola o gesto piomba nell’insensatezza se proiettato nel tempo a venire, ove non scorge nulla in grado di modificare l’ineluttabile screpolarsi della vita. Basta una sola giornata a replicare l’assurdo scorrere di un tempo inutilmente vano, deserto di affetti e progetti, senza aspettative, assente lo spazio per coltivare qualsivoglia illusione.
È pur vero che Bassani colloca questo “sentito” personaggio in un preciso contesto storico, carico degli umori del problematico e inquietante dopoguerra vissuto nelle campagne ferraresi. Ma, tra ex fascisti e comunisti animati da revanscismo, Limentani vive la sua esistenza di isolato, vinto da malesseri profondi che ne hanno disseccato la linfa vitale, fino al punto di renderlo dubbioso sui suoi stessi lineamenti fisici, sul suo “consistere”, sui luoghi che gli appaiono quasi velati da un onirismo ad occhi aperti, sistematico e pervasivo. Limentani avverte con sofferta amarezza la sua completa estraneità; i consueti riti famigliari lo disturbano, ogni luce di emozioni spenta, neppure la figlioletta suscita in lui senso di appartenenza e affetto che, a tratti, sente gli consentirebbero un minimo di ruolo.
Verso la moglie non prova alcun sentimento d’amore, con lei nessun dialogo che sfiori le corde dell’interiorità, la sa calcolatrice e forse fedifraga, tesa unicamente al controllo economico di proprietà sempre più in bilico, sposata in obbedienza al principio salvifico del suo essere “ariana”, in tempi dove il farlo poteva eliminare non pochi problemi per chi aveva radici ebraiche. Tutto perennemente uguale e lui piagato e stanco, affetto da un’abulia che occultava laceranti psicomachie, alieno da incombenze e nel contempo inabile a reperire un pertugio tra una vita dissugata dal prosciugarsi quotidiano di ogni speranza. Una sola giornata lo obbligherà non solo a guardarsi dentro, ma anche a dover assistere alla opprimente realtà esterna.
Dopo tanti anni Limentani decide di recarsi a caccia in Valle Nuova vicino a Codigoro, avventurandovisi come un esule, quasi per mettersi alla prova, un esperimento di vita di cui si ha la sensazione egli conosca già l’esito. Non è un caso che Edgardo si senta aggredito dall’ansia cui si accompagna una lancinante gravezza corporea, segnale o meglio metafora evidente di quel malessere che ormai alberga in lui e non gli concede tregua, una sorta di aguzzino spietato, pronto a vanificare qualunque sforzo di uscire dal grumo denso del suo male di vivere, della pena che lo scarnifica inibendogli atti e gesti talora elementari. Il suo non ha i crismi di un viaggio fuori mura per assaporare finalmente il “diverso”, è un traslocare quel labirinto senza varchi che ne ha fatto un prigioniero incapace di sognare. L’unico stupore nasce dall’osservare la vita altrui dalle sue sbarre interiori, chiedendosi attonito come riuscisse loro di trovarvi motivi di rumorosa allegria, quando a lui il “quadro” appariva foriero di ferite continue e invivibile. Egli è un assente permanente dalla vita e non c’è situazione, in apparenza irrilevante, che non finisca con l’acuminargli dentro la lima della sua immedicabile solitudine e soprattutto il discrimine insuperabile tra adesione alla vita (gli altri) e il suo considerarla assolutamente deprivata di senso.
Non, dunque, una normale battuta di caccia, bensì una catabasi dolorosa, un vero e proprio tragitto agli inferi ove gli diviene inevitabile riscontrare tutta la sua debolezza e incapacità di orientamento nelle pieghe della vita. Per gli altri un semplice stare nei ruoli, un disporsi al massacro per lui, in compagnia di tanti tormentosi perché, la cui risposta è buio pesto. La costipazione intestinale da cui si sente appesantito e oppresso non è che l’inizio della sua personale metamorfosi deputata a tramutarlo in corporalità ferita, come emblema prolettico dell’incontro-scambio “ravvicinato” con il malcapitato airone, preda sacrificale, per una crudeltà indifferente che a Limentani non può non ricordare quella della vita, la sua! Edgardo, chiuso nella “botte”, novello Diogene afasico, incapace di sparare un solo colpo, di riflesso consapevole del suo essere-per-la-morte, si limita, inizialmente, ad osservare inquieto l’abilità di cacciatore provetto di Gavino e poi a rintanarsi accidioso nella sua botte-rifugio.
Quell’airone disorientato e come lui prigioniero di un destino assurdo, reca la sua corporalità quasi fosse un’offerta votiva; tale tragedia proiettiva non gli consente di partecipare a quanto diverrebbe una feroce esecuzione nei confronti di quell’inerme massa “offesa” planante verso la morte, ma non prima ch’egli possa leggere negli occhi dell’animale uno sgomento che ben conosce. La scena dell’airone mortalmente colpito è registrata dallo sguardo autoriflettente di Edgardo attraverso una rallentata narrazione di ascendenza ovidiana, culminante non solo nell’incrocio muto degli sguardi, bensì soprattutto nell’avvertire quella fine come un presagio metamorfico. Limentani ancora una volta spettatore impotente dell’insensatezza del vivere che si tramuta in un “correre alla morte”.
Dopo questa “acmè” marcatamente scenografica, Edgardo, che dall’inizio il narratore ha potuto ritrarre solo mediante una sequela di “come se” (escamotage retorico-stilistico per l’inadeguatezza verbale a definirlo!) ritorna a guardare alle cose vedendole deformate, quasi si frapponesse tra lui e la realtà un filtro, una lente anamorfica, un vetro, oggetti, questi, abilitati a tradurre una sorta di invalicabile “limen” fra l’al di qua e l’oltre. Ebbene, tanto ciò che sta di qua perde consistenza e senso, quanto quell’oltre assume i caratteri dell’inviolabilità, dell’arrestarsi di quel minaccioso e sempre incombente disgregarsi delle cose. Sarà proprio davanti al vetro del negozio di uccelli imbalsamati che Limentani darà avvio al suo processo catartico, presa coscienza dell’intangibilità che il non esserci più consente e pare promettere, quasi premio alla fatica senza scopo del vivere. Intuisce finalmente come liberarsi da quell’insopportabile sopruso della vita, una volta scoperta l’esistenza di un non luogo dove tutto resta incontaminato nella sua perfetta immobilità, ben più gratificante di ogni nostro vano conato di gesti e parole.
Il ritorno a Ferrara vede un uomo che, lungo il percorso, ha maturato la sua liberatoria convinzione; le catene che lo hanno inchiodato ad un’esistenza amorfa e defraudante vanno progressivamente dissolvendosi. Edgardo ha capito, la fuga verso la libertà è la sua scelta. La vita-prigione può essere, per sua volontà, abbandonata senza rimpianti. Deciderà di cancellare il tarlo che lo divora. Un colpo di fucile gli confermerà che la vita “vera” è altrove…
Prof. Gardenio Granata, 2004
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