“Si è notato più volte, scherzosamente, che ci sono molte donne – e giovani donne – le quali ambiscono a fare lavori e professioni che gli uomini non desiderano più fare, anzi che considerano liberatorio non esser più costretti a fare. Aumenta, fra i ragazzi, il numero degli obiettori di coscienza: per contro, una quantità sempre più ampia di ragazze chiede di entrare nelle caserme, nelle accademie militari, nelle scuole di guerra; scende il numero degli aspiranti sacerdoti nella Chiesa cattolica: in cambio – solo in nome della “parità” tra i sessi? – si fanno più vive le istanze che contestano l’esclusiva maschile del sacerdozio.
Si contesta, soprattutto, il principio secondo il quale vi sarebbero validi motivi – fisiologici, o giuridici, o storico-culturali – per riservare questo o quel ruolo a uno solo dei sessi. Diciamoci la verità: qualche volta, verrebbe su questa strada la voglia di andar oltre il principio della parità individualistica, d’un’eguaglianza che per esser perseguita sino in fondo sembra aver dimenticato di prendere in considerazione il principio della complementarità; e si avrebbe voglia di domandarsi più semplicemente se le donne non siano state in qualche caso storicamente escluse da professioni e da ruoli che in realtà avrebbero saputo tener meglio degli uomini.
Pensiamo appunto non genericamente al servizio militare, ma proprio alla guerra: durante il secondo conflitto mondiale, i tedeschi – sulle doti di serietà e di coraggio nel far la
guerra nessuno ha mai osato eccepire – hanno lasciato varie testimonianze d’ammirazione per le soldatesse sovietiche; e l’eccellenza di quelle israeliane è divenuta proverbiale provocando fra l’altro non pochi traumi culturali ai loro avversari arabi, per i quali esser battuti da donne è uno smacco particolarmente cocente.
Eppure nella storia – se si eccettuano casi molto particolari – il ruolo guerriero é stato ricoperto da donne solo in un complesso mitologico anche se più volte rivisitato e commentato. Quello delle misteriose amazzoni.
Per la verità, il quadro antropologico-storico di riferimento, sul piano del rapporto fra donne e armi, è più articolato e di gran lunga più complesso. Restano fondamentali senza dubbio alcuno i grandi archetipi della femminilità guerriera, associata di solito alla verginità – Atena Parthenos, cui si può avvicinare Artemide (e sui rapporti tra caccia e guerra sembra inutile insistere); ma anche la Vergine Maria, “oste schierata in campo” e Signora delle Battaglie – ma al tempo stesso connessa con valori di chiaro tipo sessuale: si pensi alla figura biblica di Giuditta.
Il ruolo riflesso della donna negli assedi e sui campi di battaglia resta intenso: non a caso Eva è Isha, cioè virago, da vir; la guerra di Troia si scatena per Elena e, come riflettono i vecchi saggi troiani sulle mura, ne valeva la pena; sono molti gli esempi classici e medievali delle donne dei guerrieri che incoraggiano i loro uomini a combattere con valore promettendo loro delizie d’amore dopo la battaglia o, al contrario, offrendosi al nemico in modo da interporre solo la barriera dei loro uomini fra esse e loro, e da far si che il valore guerriero dei loro padri, fratelli, mariti, fidanzati e amanti sia l’unica difesa per l’onore di questi e di loro stesse.
La donna come premio del vincitore – questo il presupposto archetipico della stessa pur barbara pratica dello stupro – va al di là della vita stessa: uri e valchirie stanno sul limite oltre il passaggio fatale, premio all’eroe caduto. E non solo le guerre, ma gli stessi tornei cavallereschi non sarebbero mai stati quel che sono stati se non vi fossero state donne giudici del valore dei contendenti e pronte – almeno simbolicamente – a ricambiare in termini d’amore i loro exploits premiando i valorosi e irridendo ai deboli, ai maldestri, ai vili.
Eva, insomma, sta a suo agio tra le armi; ma più intenso e in un certo senso più affascinante e pericoloso è il caso della donna guerriera, che non si limita a far parte dell’universo della guerra come divinità archetipica, o spettatrice, o giudice, o pegno, o preda, o premio, ma che essa stessa si appropria del ruolo che ordinariamente appartiene all’uomo.
La mutilazione delle amazzoni, il taglio della mammella, al di là del valore funzionale che miticamente gli si attribuiva (la possibilità di tender meglio l’arco), era una “ferita rituale” androginizzante, una parziale almeno rinunzia alla condizione di donna, un simbolico rifiuto del ruolo della madre allattante. ll caso mitico delle amazzoni è destinato a restare, al riguardo, paradigmatico. I greci le collocavano nell’antichità remota ma sulla soglia tra mito e storia – Plutarco parla di un’incursione delle amazzoni in Attica ai tempi di Teseo – e tra spazio reale e spazio immaginario o comunque inattingibile, cioè ai confini del mondo: in tal modo, spinte all’estremità del tempo e dello spazio, l’amazzone diveniva creatura marginale e reale al tempo stesso, in cui marginalità e realtà tessevano fra loro un complesso discorso.
Già Erodoto ne aveva fatto le antenate dei sauromati, ponendole quindi quali figure-chiave di una dimensione marginale e antagonistica al tempo stesso, le barbarie: già secondo l’Iliade esse erano “donne-uomo”, antianeirai, vale a dire per un verso ‘nemiche dei maschi‘ , per un altro loro emule…”
[Franco Cardini]
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